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Il governo conferma Descalzi all’Eni. Lo “Stato parallelo” vince ancora

Nel futuro di Eni il fossile resta protagonista. La riconferma dell'attuale amministratore delegato conferma l'abituale passività degli ultimi governi nella gestione della compagnia

Claudio Descalzi è amministratore delegato di Eni dal 9 maggio 2014 © archivio Eni

Claudio Descalzi è stato confermato per la terza volta consecutiva alla guida dell’Eni. L’ha deciso il governo italiano, che ha il controllo di fatto della società, con il 30,10% delle azioni (in via diretta e indiretta, tramite la Cassa Depositi e Prestiti, CDP SpA). A niente sono serviti i ragli last minute della fronda M5S guidata da Alessandro Di Battista (48 tra parlamentari, consiglieri regionali e amministratori locali) che ha ricordato, giustamente ma quando i giochi ormai erano fatti, la delicata posizione processuale dell’amministratore delegato, imputato per corruzione internazionale nel caso del giacimento nigeriano OPL 245 e i presunti affari, in odore di conflitto di interessi, di sua moglie, la congolese Marie Madeleine Ingoba.

Tutte le tappe della licenza OPL245 in Nigeria ENI
Tutte le tappe della licenza OPL245 in Nigeria che vede coinvolte ENI e SHELL.

«La sentenza di primo grado sul caso OPL245 è attesa da parte del tribunale di Milano ad inizio 2021» ricorda Antonio Tricarico di Re:Common. «Indagini su altre operazioni di Eni nella Repubblica del Congo, avviate sempre sulla base di un esposto di Re:Common e dei suoi partner internazionali, avrebbero portato alla luce prove che dimostrerebbero un altro possibile caso di corruzione, mentre lo stesso Claudio Descalzi è stato accusato di un serio conflitto di interesse dopo che è stato scoperto che l’Eni era in affari per 300 milioni di dollari con alcune società che, attraverso una impresa registrata in Lussemburgo, facevano capo a sua moglie. Descalzi ha affermato che le transazioni non sono mai state oggetto di sue valutazioni o decisioni, ma ha di fatto confermato il legame».

Su Descalzi governo passivo

La riconferma di Descalzi è l’ennesima prova del ruolo passivo dei governi italiani, della storia recente, nella gestione di Eni. «Se le imprese a partecipazione statale esistono vuol dire che lo Stato ritiene importante gestirle in modo diverso da un investitore privato. E allora lo faccia. Se invece ha a cuore solo la massimizzazione dei profitti, meglio venderle ai privati il prima possibile», ha dichiarato a L’Espresso l’economista Luigi Zingales, uscito dal consiglio di amministrazione di Eni nel 2015, ad appena 14 mesi dalla nomina, dopo un duro scontro con lo stesso Descalzi.

«Le strategie di Eni impattano sull’ambiente, sui rapporti dell’Italia con i Paesi africani e sul fenomeno migratorio. Aiutare l’élite locale ad arricchirsi (come sarebbe successo nel caso dell’OPL 245 in Nigeria, ndr) può essere finanziariamente redditizio, ma non favorisce lo sviluppo di un Paese, anzi costringe molti africani a emigrare per sopravvivere».

Il governo Conte, però, ha scelto di non scegliere proseguendo sulla strada degli esecutivi precedenti, che più che guidare Eni si sono fatti guidare dalla multinazionale petrolifera, un gigante che è più forte di ogni governo, soprattutto se i governi sono deboli, tenuti insieme da maggioranze traballanti. Ed è a tutti gli effetti uno “Stato Parallelo”, come l’hanno definito, a ragione, i giornalisti Andrea Greco e Giuseppe Oddo nell’omonimo libro.

Il cane da mungere

Del resto il cane a sei zampe stacca ogni anno dividendi generosi, che al governo-investitore tornano utili per finanziare spesa pubblica e investimenti. Quest’anno il ministero del tesoro incasserà 135,6 milioni di euro direttamente e 666,3 milioni di euro indirettamente (tramite la partecipazione dell’82,77% in Cassa Depositi e Prestiti). Anzi, metà dei soldi li ha già presi con l’acconto pagato nel settembre del 2019.

Come non confermare, quindi, un amministratore che stacca laute cedole, nella buona e nella cattiva sorte? Se lo Stato, come sembra di capire, ha a cuore solo la massimizzazione dei suoi introiti, Descalzi è sicuramente la scelta giusta, almeno in una prospettiva di breve periodo, considerando che, con il prezzo del petrolio (Brent, su cui Eni basa i suoi piani strategici) oggi a 27 dollari al barile e aspettative grame per il futuro, sembra difficile che la festa dei dividendi possa continuare a lungo. Ma quale governo italiano, negli ultimi anni, ha avuto una prospettiva di lungo periodo?

L'andamento del prezzo del petrolio (Brent) negli ultimi dodici mesi (al 20 aprile 2020). In un anno il Brent è crollato di circa il 60%. Fonte: MarketsInsider
L’andamento del prezzo del petrolio (Brent) negli ultimi dodici mesi (al 20 aprile 2020). In un anno il Brent è crollato di circa il 60%. Fonte: MarketsInsider

Più dividendi, meno investimenti

Nell’ultimo piano strategico di Eni, presentato il 28 febbraio scorso agli analisti finanziari, si parte dal presupposto che la “cash neutrality“, ossia la copertura degli investimenti e del dividendo con i flussi di cassa dall’operatività tipica (senza ricorrere alla vendita di asset o a nuovi debiti), si ottenga a un prezzo di 55 dollari al barile, per scendere poi a 45 dollari entro il 2023. Si tratta di livelli ben distanti da quello attuale. Ma Eni a tagliare il dividendo per mettere fieno in cascina in vista di possibili futuri scenari depressivi proprio non ci pensa.

Anzi, il dividendo per azione che si porterà all’approvazione dell’assemblea degli azionisti di maggio è in crescita del 3,5% rispetto all’anno scorso e sarà finanziato in buona parte con un aumento dell’indebitamento finanziario netto, visto che l’utile 2019 non basterà (0,15 miliardi di euro di utile contro 3,5 miliardi di euro di dividendo). Piuttosto che ritoccare al ribasso i dividendi, Eni preferisce tagliare gli investimenti: del 25% nel 2020 e del 30-35% nel 2021. Il governo tace o benedice in silenzio.

Un piano ambientale fantasioso

C’è poi il capitolo ambientale, su cui è incentrato tutto il piano strategico, con obiettivi molto ambiziosi, primo tra tutti la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serraGas che compongono l’atmosfera terrestre. Trasparenti alla radiazione solare, trattengono la radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre, dall'atmosfera, dalle nuvole.Approfondisci (GHG) dell’80% in termini assoluti e del 55% in termini relativi (“net carbon intensity“) entro il 2050. La riduzione sarà ottenuta combinando almeno cinque strategie diverse:

  1. aumento della quota di gas in una produzione di idrocarburi in diminuzione (dopo il 2025) e ulteriore riduzione del gas flaring (il gas che fuoriesce dai giacimenti e viene bruciato a cielo aperto, ndr);
  2. investimenti nelle rinnovabili (con una capacità installata superiore a 55 GW al 2050);
  3. conversione delle raffinerie europee in bio-raffinerie;
  4. conservazione delle foreste;
  5. cattura e sequestro del carbonio (CCS).
Il target di riduzione delle emissioni di CO2 di Eni in termini assoluti e relativi. Fonte: Eni, Conference call con gli investitori, 28 febbraio 2020.
Il target di riduzione delle emissioni di CO2 di Eni in termini assoluti e relativi.
Fonte: Eni, Conference call con gli investitori, 28 febbraio 2020.

Eni come Greta… ma senza fretta

Buona parte di queste strategie entreranno però in azione dopo il 2025. Fino a quella data, infatti, si continueranno ad estrarre petrolio e gas con una crescita del 3,5% medio all’anno per sei anni e del 23% complessivamente e investimenti per 24 miliardi di euro fino al 2023, contro i 2,6 miliardi destinati alle energie rinnovabili. In pratica, Eni riconosce che “la nostra casa è in fiamme”, come dice Greta Thunberg, ma per i prossimi sei anni continuerà a buttare benzina e gas sul fuoco come se non ci fosse un domani. Quello che farà dopo il 2025, poi, è ancora molto vago.

Ci sarà un graduale declino della produzione di idrocarburi e la progressiva sostituzione del petrolio con il gas, cambierà il modello di business e già nel 2035 potrebbe essere al 50% fossile e al 50% green, come dichiarato dal direttore finanziario Massimo Mondazzi nella conference call con gli analisti. Non si tratta però di un obiettivo scritto sulla pietra: tutto potrebbe cambiare in virtù della necessaria flessibilità del piano, per adattarsi ai cambiamenti dei mercati.

La decarbonizzazione di Eni non convince

A rimanere fissi saranno solo gli obiettivi di decarbonizzazione. Che però si baseranno, in gran parte, su piani di conservazione delle foreste, in base al programma REDD+ dell’UNFCCC (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) e di CCS (Carbon Capture e Storage, cattura e sequestro del carbonio). Per entrambe le strategie non sono però forniti dettagli. Si parla di «collaborazioni e discussioni avviate con governi», soprattutto in Africa, per i REDD+, mentre fino all’anno scorso si era parlato di piantare 8,1 milioni di ettari di alberi, obiettivo poi smentito, sconfessando il Financial Times. E si magnificano le qualità di un giacimento di gas esaurito a Ravenna, nel quale si potrebbero stoccare dai 300 ai 500 Mton (milioni di tonnellate) di CO2, previa autorizzazione del progetto. Che, però, arriverebbe al più presto nel 2025.

Target di assorbimento della CO2 (Mton/Milioni di tonnellate all'anno) grazie a piani di conservazione forestale REDD+. Fonte: Eni, Conference call con gli investitori, 28 febbraio 2020.
Target di assorbimento della CO2 (Mton/Milioni di tonnellate all’anno) grazie a piani di conservazione forestale REDD+. Fonte: Eni, Conference call con gli investitori, 28 febbraio 2020. Al momento Eni non ha pubblicato alcun dettaglio su alcuno dei piani REDD+.

Descalzi scommette ancora sul petrolio

Insomma, con il nuovo piano strategico Descalzi si è assicurato la licenza di fare quello che sa fare meglio, e cioè il petroliere, per almeno un altro mandato triennale, lasciando ai posteri l’onere e l’onore di mettere in atto una transizione verde fortemente basata sul gas, il cui presunto maggiore contributo alla riduzione delle emissioni GHG rispetto al petrolio (e allo stesso carbone) è discutibile e sul CCS, una tecnologia ancora immatura, in particolare per quanto riguarda gli impianti di grossa taglia.
Uno dei due mandati Descalzi l’ha appena ottenuto in regalo dal governo Conte. Che ha perso un’occasione unica per instradare la compagnia petrolifera nazionale su un vero percorso di sostenibilità economica, sociale e ambientale.