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Basilicata, la storia (scomoda) della valle sacrificata al petrolio

Le trivellazioni in Val d'Agri hanno portato due effetti nefasti: hanno fatto aumentare il tasso di malattie e mortalità. Ma non hanno nemmeno aiutato l'occupazione

Pasquale Stigliani
Pasquale Stigliani
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Quella del petrolio in Basilicata è una lunga storia che non viene mai raccontata per intero. Ha inizio con le prime scoperte avvenute in Val d’Agri all’inizio del secolo. E quasi mai, attorno a queste vicende, c’è stato un dibattito “critico” che permettesse di chiarire una domanda semplice: quali sono stati i benefici per il territorio? Quali i costi e gli impatti negativi in termini sanitari e ambientali? E quali introiti ha negato all’economia locale nel campo turistico, culturale o agricolo?

Domande spesso sottovalutate dai media ma presenti nel tessuto dell’opinione pubblica locale. L’assenza di trasparenza e di un racconto oggettivo sulle attività petrolifere svolte da Eni nella concessione di coltivazione in Val d’Agri (in scadenza nell’ottobre del 2019) hanno fatto emergere la consapevolezza che non è oro ciò che appariva luccicare.

I silenzi di Descalzi

È bastata una goccia, si fa per dire, a far traboccare il vaso.
Dopo aver negato a lungo, perfino in audizione della X Commissione Industria del Senato, l’Eni di Descalzi ammette che dal Centro Olio Val d’Agri (COVA) sono state “sversate 400 tonnellate di petrolio in Basilicata, 6mila metri quadri contaminati”.

Un danno enorme per la Basilicata che ha portato alla chiusura per alcuni mesi del COVA e la contaminazione delle acque che defluiscono a due chilometri dalla diga del Pertusillo, un bacino idrico che fornisce acqua anche alla Puglia.

Un danno per le casse lucane

Per l’accaduto è attesa la chiusura dell’indagine della magistratura e la fine dei lavori di messa in sicurezza e la conseguente bonifica. Il fermo del COVA è costato ad Eni 250 milioni di euro ai quali vanno aggiunti i 6,5 milioni spesi per le attività di verifica e controllo realizzati nei primi 60 giorni, oltre a quelli per la completa messa in sicurezza e la realizzazione della bonifica.

Oltre al danno sanitario e ambientale non ancora stimato, per la Regione Basilicata si è creato un danno di cassa pari a 100 milioni di euro. Il buco di bilancio ha contribuito all’esercizio provvisorio del bilancio regionale a partire dal 1° gennaio scorso.

“A Viggiano e Grumeto si muore di più”

A pochi mesi dalla scoperta dello sversamento, altre informazioni interessanti sono emerse grazie all’indagine di un dirigente del CNR, il professor Fabrizio Bianchi. Il suo studio di Valutazione di Impatto sulla Salute (VIS) nei comuni di Viggiano (PZ) e Grumento Nova (PZ) (l’area sulla quale insiste la concessione petrolifera), ha evidenziato un dato sconvolgente.

A “Viggiano e a Grumento si muore di più e ci si ammala di più, per determinate patologie, sia rispetto al resto della Val d’Agri, sia rispetto al resto della Regione. I risultati mostrano degli eccessi di rischio che sono connessi con gli inquinanti derivanti dal Cova”.

Dalla VIS emerge inoltre “un’elevata percezione di rischio sia ambientale che sulla salute. Il COVA è prevalentemente considerato molto pericoloso, oltre il 60% degli intervistati ritiene sia certo o molto probabile il rischio di una patologia tumorale, di infertilità e anche di condizioni piuttosto rare come le malformazioni congenite. Su tutto questo crediamo ci sia da riflettere e da operare”.

Una lunga sequenza di danni

Ma lo sversamento di cui abbiamo parlato è solo l’ultimo di una serie di episodi. Talmente tanti e preoccupanti da aver inciso sulla percezione del rischio (non un caso che la Basilicata sia l’unica regione in cui il referendum contro le trivelle del 2016 ha raggiunto il quorum). Autocisterne uscite fuori strada. Fiammate nel COVA di Viggiano. I primi problemi nel bacino del Pertusillo e al pozzo di Costa Molina. I problemi alla salute degli abitanti delle zone adiacenti all’impianto di Tecnoparco a Pisticci (MT) in cui vengono trattate le acque reflue del petrolio. Gli arresti in seguito alle indagini dei Carabinieri del Noe. La fuoriuscita di petrolio dall’oleodotto nel Metapontino. E poi l’ultimo episodio dello sversamento, denunciato dalla conferenza stampa di Maurizio Bolognetti e reso visibile con il volo del drone di Michele Tropiano che ci ha portato a conoscenza dei colori oscuri presenti nell’acqua del Pertusillo.

Alcuni di questi tratti sono stati ben raccolti nel video “Mal d’Agri” di Mimmo Nardozza.

Un protocollo disatteso

Ma non mancano neanche studi e testimonianza più scientifiche raccolte nei tanti incontri che si continuano a svolgere in Basilicata. Tali episodi non sono emersi dal monitoraggio che dovrebbe essere presente sulle attività estrattive dell’ENI nel rispetto del Protocollo di intenti tra ENI e Regione Basilicata del 1998. Il Protocollo, in gran parte disatteso, prevede l’istituzione dell’Osservatorio  Ambientale “Val D’Agri”. Una sorta di misura di compensazione ambientale in relazione al progetto di sviluppo petrolifero nell’area della Val d’Agri. Ma basta andare sul sito internet dell’Osservatorio per capire la situazione. La sezione online sulla produzione e le royalties non offre alcun dato ed è sempre in aggiornamento. A che scopo? Quella sul monitoraggio delle acque superficiali e di reignezione sono inaccessibili, di fatto negando l’accesso all’informazione dei cittadini.

Le conclusioni dell’università di Padova

Il buio intorno al petrolio lucano è stato ben descritto anche dall’approfondimento realizzato dalla ricerca “Petrolio e biodiversità in Val d’Agri – Linee guida perla valutazione di impatto ambientale di attività petrolifere onshore”, curata da Alberto Diantini e pubblicata dall’Università di Padova nel maggio 2016.

Dalle conclusione emerge che non è stato possibile utilizzare le linee guida per esaminare il caso di studio della Val d’Agri al fine di avere un’analisi completa degli impatti previsti e presenti per le attività produttive realizzate nella concessione. “Tale risultato non è attribuibile ad errori compiuti nella definizione delle linee guida, bensì alla non disponibilità degli Studi di Impatto Ambientale relativi a buona parte degli impianti di estrazione presenti e all’impossibilità di recarsi all’interno delle aree pozzo per più dettagliate osservazioni sul campo. È mancata quindi la possibilità di verificare se le misure preventive e mitigative previste dagli Studi di Impatto Ambientale siano state concretamente realizzate a livello delle aree pozzo”.

E, continuano i ricercatori dell’ateneo padovano, “in qualche modo è venuta così a mancare la possibilità di verificare la continuità tra la fase progettuale e quella operativa, tra valutazione ex ante e monitoraggio ambientale in itinere per individuare elementi utili a migliorare sia la performance della VIA sia a migliorare le performance ambientali delle operazioni.”

L’esame, pertanto è stato limitato e non esaustivo. Effettuato sulla base di fotografie e osservazioni dall’esterno delle recinzioni che delimitano le aree pozzo. Viene segnalato inoltre “la sostanziale mancanza di trasparenza da parte di molte pubbliche amministrazioni contattate in merito e il generale disinteresse manifestato da Eni nei confronti della richiesta di informazioni”.

Corte dei Conti: royalties usate in modo anomalo

Notizie più precise si hanno invece sulle royalties di circa 150 milioni di euro all’anno. Ma anche in questo caso, non sono positive. Secondo la relazione della Corte dei Conti del 2014 sono state infatti spese in modo anomalo.

E, per di più, dal 2016 il gettito delle royalties si è ridotto per una diminuzione della produzione di idrocarburi negli ultimi anni.

Dal lato economico, dalla presentazione sugli “Idrocarburi e l’occupazione in Basilicata” tenuta da Ivano Scotti dell’Università di Napoli si può trarre una riflessione sugli impatti occupazionali. Del tutto disattesi rispetto alle premesse che la compagnia petrolifera ha sempre sostenuto.

Nessun vantaggio per economia locale

Di fatto, nonostante la produzione petrolifera fosse a regime già dal 2005, l’area interessata dalle concessioni Val d’Agri, nel 2012 è considerata dal Rapporto Svimez sullo stato dell’economia della Basilicata tra le “aree urbane in difficoltà”, dimostrando come il petrolio non ha determinato un processo di crescita e di sviluppo economico nella zona interessata.

Un approfondimento con maggiori dettagli nel merito è stato offerto dal libro “L’economia del petrolio e il Lavoro – L’estrazione di idrocarburi in Basilicata tra fabbisogno energetico nazionale e impatto sull’economia locale” scritto da Davide Bubbico. Dalla lettura emerge chiaramente una verità scomoda per chi sostiene l’utilità delle ricerche petrolifere.

Le attività estrattive in Basilicata non hanno infatti soddisfatto le enormi aspettative promosse dalla compagnia e dalle istituzioni. In questi anni di sfruttamento degli idrocarburi in Basilicata non è stata creata ricchezza per il territorio lucano.

L’industria petrolifera ha trovato uno spazio modesto nell’indotto, in gran parte legato all’attività della gestione dei rifiuti che la stessa produce.

* L’autore è portavoce dell’Associazione Antinucleare ScanZiamo le Scorie