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«Penalizziamo i prodotti dei Paesi inquinatori»: i “dazi climatici” possono aiutare la svolta?

Andrea Masullo (direttore scientifico Greenaccord): è ora di tassare i prodotti degli Stati ecologicamente riottosi per premiare i virtuosi. L'approccio delle COP è fallimentare

Emanuele Isonio
Emanuele Isonio
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Dietro la parola “dazi” si cela sempre un che di negativo, contorto e pericoloso per la stabilità internazionale. Ma se proprio da questo strumento, opportunamente rivisto e corretto, arrivasse una possibile soluzione per ridurre l’impronta ecologica globale e le emissioni climalteranti?

Il fragoroso fallimento della COP25 di Madrid ha lasciato basite le porzioni di opinione pubblica più sensibili ai temi ambientali. Ma lo scoramento sta coinvolgendo anche le delegazioni dei Paesi più ecologicamente virtuosi. E da più parti si sta pensando a quali strumenti possano davvero funzionare per costringere gli Stati più riottosi ad accettare il taglio di emissioni deciso con l’Accordo di Parigi del 2015.

«L’atteggiamento di chi si defila dagli impegni è in tutto simile all’evasore fiscale che gode dei servizi garantiti da chi le tasse le paga» accusa Andrea Masullo, esperto di sostenibilità ambientale e direttore scientifico della rete di giornalismo ambientale Greenaccord.

«Davanti alla fragilità dell’impostazione delle Cop, è necessario che i Paesi virtuosi pensino ad altri strumenti. Uno di questi può essere un sistema di tassazione degli scambi commerciali internazionali che, al costo di qualsiasi merce aggiunga un costo ecologico calcolato in base ai gas serra emessi per la sua produzione».

Professor Masullo, in pratica lei propone di tarare in senso ambientale il sistema dei dazi?

Chiamiamola “carbon tax” o “dazio climatico”, ma appare sempre più necessario che i paesi “climaticamente virtuosi” facciano pagare a quelli che irresponsabilmente non assumono impegni concreti, i benefici di cui comunque usufruiranno per lo sforzo altrui.

Qual è la ratio di questa proposta?

Alla COP25 abbiamo visto una lunga schiera di Paesi che irresponsabilmente si sono defilati da impegni concreti. In prima fila, gli Stati Uniti, Australia, a cui si sono aggiunti per motivi diversi India, Brasile e Sud Africa. E anche la Cina, vedendo lo smarcamento di Washington, ha fatto dei passi indietro.

Tutti questi Paesi stanno godendo degli sforzi fatti dagli Stati più virtuosi, pensano cinicamente di averne vantaggi economici e commerciali nel continuare con lo status quo: producono disinteressandosi delle emissioni e così, almeno per alcuni anni, le loro merci costeranno meno. È un dumping intollerabile e ingiusto che finisce per penalizzare il tessuto produttivo degli Stati più impegnati nella riduzione del proprio impatto ambientale.

Come funzionerebbe nello specifico?

Noi abbiamo tutti gli strumenti per calcolare, per qualsiasi merce, quante emissioni ha causato. Il Paese che importa un prodotto è quindi in grado di conoscere l’impronta legata a quel prodotto e a uno analogo realizzato all’interno dei confini nazionali. Sulla differenza di impronta ecologica delle due merci si potrebbe applicare la tassazione. Più è virtuoso un Paese, più il gap è elevato e quindi più l’importazione da uno Stato inquinatore diventa sfavorevole.

Mi perdoni, ma di solito quando uno Stato applica un dazio a un altro Stato quest’ultimo risponde con contro-dazi e si scatena una guerra commerciale. La diatriba Trump-Xi Jinping è sotto gli occhi di tutti. Perché con i dazi climatici dovrebbe essere diverso?

Innanzitutto, in questo caso, i dazi sono riservati solo ai Paesi (o anche a singoli comparti particolarmente inquinanti di certi Paesi) che producono con emissioni climalteranti più alte di quelle dello Stato che applica il dazio. Poi, le sovrattasse non sarebbero applicate da un singolo Stato ma dovrebbero essere concordate dal gruppo di Stati più virtuosi, che anche alla COP25 sono emersi piuttosto chiaramente e iniziano a essere un bel numero. È più difficile da battere una coalizione di Stati di uno singolo.

Inoltre, diversamente dai dazi “classici”, in questo caso, il Paese inquinatore, introducendo un controdazio ammetterebbe che sta difendendo un sistema produttivo altamente inquinante. E non è un bello spot verso consumatori e investitori, la cui sensibilità ambientale sta crescendo anno dopo anno. Ammetterebbe ai loro occhi di essere uno “Stato ecologicamente canaglia”, di stare applicando una strategia meramente ritorsiva. Si esporrebbero quindi a campagne denigratorie a livello internazionale. E se quelle campagne hanno funzionato nel passato per singole aziende come Nike per il lavoro minorile, perché non dovrebbero funzionare di nuovo?

Però, stando ai dati sull’impronta ecologica dei diversi Stati, in caso di contro-dazi c’è il rischio di tagliarsi fuori un bel bacino di consumatori: Stati Uniti e Cina da soli fanno quasi la metà delle emissioni globali.

Io farei una differenza tra l’approccio di Washington e quello di Pechino. Anche alla COP25 mi è sembrato chiaro che la Cina sta marcando a uomo gli Stati Uniti e si sta adeguando alle sue scelte. Ma sta anche fiutando l’opportunità di un mercato climate-friendly. Se vedesse una coalizione di Stati ecologicamente virtuosi lanciare una simile ipotesi, potrebbe accodarsi anche in funzione anti-statunitense.

Questa sua proposta richiede però un pre-requisito: la possibilità di calcolare le effettive emissioni emesse da un comparto industriale nei Paesi ai quali applicare i dazi. Tecnicamente è possibile farlo?

Se c’è una cosa che è cresciuta in questi ultimi anni è l’efficacia e la precisione dei meccanismi di contabilizzazione delle emissioni. Dove sono state applicate, come in Unione europea, hanno dato ottimi risultati e sono ormai accettate ovunque. Si possono applicare a qualsiasi realtà. Ci sono metodi ormai consolidati, parametri condivisi, indicatori precisi. Sono fattori che possiamo provare a usare come meccanismo di pressione sulle scelte degli Stati più riottosi.

E si riesce a conoscere l’impatto di un settore produttivo di un qualsiasi Paese?

Forse si possono avere problemi a livello di singole aziende ma, a livello di comparti produttivi, i dati statistici sui mix energetici utilizzati sono facilmente reperibili. Si possono calcolare le emissioni e quindi l’importo della “tassa climatica” a un intero settore. Starebbe nel caso al Paese sanzionato dimostrare che i dati sono sbagliati. E questo incentiverebbe un processo di trasparenza.

Tornando alla COP25: si aspettava un fallimento tanto clamoroso.

LaCOP 25 si è conclusa lasciando un profondo e sconcertante vuoto. Ma, se va a rileggersi i commenti che abbiamo fatto, come associazione Greenaccord, dopo le conclusioni della COP21 di Parigi, eravamo già espresso grande scetticismo all’epoca, denunciandone l’intrinseca debolezza, andando contro corrente rispetto all’entusiasmo generale. Molti ci criticarono per quella posizione considerata troppo pessimistica. Ma oggi possiamo confermare il nostro sospetto di allora: l’Accordo di Parigaveva di positivo solo il numero di paesi firmatari, mentre gli impegni volontari previsti si sono dimostrati totalmente insufficienti a mitigare un futuro climatico che continua a correre verso prospettive drammatiche.

Ricordiamo che la concentrazione di CO2 e degli altri gas serra che raggiungeremo prima di stabilizzarla azzerando le emissioni, produrrà effetti sul clima proporzionati al livello raggiunto, per molti secoli.

La posta in gioco è enorme: più tempo passa e peggiore sarà la situazione climatica che dovranno affrontare la nostra generazione e molte generazioni future. Se non azzereremo al più presto le emissioni, metteremo seriamente a rischio la vita sul nostro pianeta e la stessa civiltà umana.