Disastro ambientale Texaco-Chevron. Dopo 26 anni continua la lotta per chiedere giustizia

Parla l’avvocato che difende le oltre 30 mila vittime della contaminazione. Il colosso petrolifero americano è stato condannato ma si rifiuta di pagare

Federico Turrisi e Sara Lorenzini
Fonte: Udapt
Federico Turrisi e Sara Lorenzini
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“La Chernobyl dell’Amazzonia”. Così è stato ribattezzato da diverse testate giornalistiche uno dei disastri ambientali più gravi della storia: quello perpetrato tra il 1964 e il 1992 dall’azienda petrolifera statunitense Texaco (acquisita nel 2001 da Chevron) nella regione di Lago Agrio, nell’Amazzonia ecuadoriana.

Oltre 68 miliardi di litri di acqua tossica e 650 mila barili di petrolio greggio sono stati riversati nei fiumi e nella foresta, il numero dei tumori è aumentato in maniera esponenziale e due comunità native sono sparite.

E non è stato un incidente

Texaco, per trarre il maggiore profitto possibile, si sarebbe servita di tecniche ormai obsolete, consapevole delle ripercussioni sull’ambiente e sulla salute degli abitanti.

Condannata, Chevron-Texaco non paga

La giustizia ecuadoriana si è pronunciata fino all’ultima istanza a favore delle vittime, condannando Chevron al pagamento di 9,5 miliardi di dollari per risanare gli oltre 480 mila ettari di area contaminata e avviare un programma di cure mediche a favore della popolazione colpita. Ma Chevron-Texaco si è sempre rifiutata di pagare e l’anno scorso un tribunale arbitrale con base all’Aia ha chiesto di annullare la sentenza contro la multinazionale, affermando che l’Ecuador ha violato il Trattato di investimenti bilaterale con gli Stati Uniti.

Parola all’avvocato delle vittime

Pablo Fajardo, avvocato principale dell’Udapt (l’Unione delle persone colpite dalle operazioni petrolifere di Texaco), 46 anni, di cui 26 passati a lottare contro Chevron-Texaco, continua a battersi per l’adozione di un trattato internazionale vincolante, che permetta di sanzionare le multinazionali che non rispettano l’ambiente e i diritti umani. La sua voce è quella di 30 mila indigeni e contadini ecuadoriani che chiedono giustizia.

Pablo Fajardo, durante una conferenza stampa a Lago Agrio, in Ecuador, il 18 luglio 2019

Lei è fiducioso che prima o poi porterete a termine la battaglia contro Chevron-Texaco?

No, quel giorno non arriverà.

Perché?

Prima di tutto dobbiamo essere consapevoli del fatto che i problemi che abbiamo di fronte vanno oltre la nostra permanenza in questo mondo. La nostra vita finisce, il problema continua. Per questo motivo, nel mio caso, cerco sempre di preparare i giovani affinché portino avanti la nostra lotta. Io so che morirò prima che il problema si risolva, ma questo non significa che devo rinunciare all’azione. Lavoriamo insieme con convinzione e con impegno per raggiungere l’obiettivo perché so che se non lo facciamo noi non lo fa nessun altro; e se non iniziamo adesso, la speranza di avere successo è ancora più lontana.

Perché Chevron-Texaco si ostina a proseguire questa contesa giudiziaria e rifiuta di pagare i danni?

È tutta una questione di sistema. A mio parere, Chevron rappresenta in questo caso tutte le multinazionali che si comportano in maniera irresponsabile nel mondo e godono dell’impunità. Quando cade un grande, tutti gli altri vengono trascinati.

Se Chevron cade e paga, le conseguenze si ripercuotono su tutte le altre multinazionali, su tutto il sistema appunto.

Punta quindi a ottenere una sentenza storica?

L’obiettivo è ottenere precedenti giuridici e sociali di fronte ai crimini commessi dalle grandi multinazionali. Io probabilmente tutto questo non lo vedrò. I cambiamenti che vogliamo nel mondo non si ottengono da un giorno all’altro o da un decennio all’altro.

Dov’è lo stato ecuadoriano in questa situazione?

Lo stato ecuadoriano è passato attraverso diverse fasi. In questo momento sta al fianco di Chevron ed è completamente assorbito dal sistema giuridico ed economico internazionale. È un servo del sistema e dà le spalle alla propria popolazione, come molti altri governi nel mondo. Quindi, in sostanza, si tratta di una lotta della popolazione contro il governo, contro Chevron, contro il sistema.

Si sente come Davide contro Golia? Cercare di cambiare il sistema è una sfida enorme…

Conosco la storia di Davide e Golia, e non mi piace. La nostra è una lotta collettiva. Non c’è un solo Davide, ce ne sono molti. Io stesso non potrei fare assolutamente niente se non ci fossero collettivi sociali di donne, contadini, indigeni e giovani. Io non so se la fine del capitalismo è vicina o no, ma so che qualcosa è entrato in crisi. In passato l’America Latina ha vissuto una stagione in cui il capitalismo, avallato da istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, ha mostrato il suo volto più crudo, più selvaggio, a vantaggio di pochi e a danno di molti. Ma adesso stiamo assistendo ad una impressionante reazione popolare: basta vedere quello che è accaduto in Ecuador e in Cile. Il fatto che la protesta stia assumendo una portata “continentale” fa crescere la speranza di un cambiamento. Cambiamento che non arriva dai governi, ma si costruisce dal basso.

Negli anni ha subito anche numerose minacce. Ha mai pensato “ma chi me lo ha fatto fare”?

Mai. Sono cosciente del fatto che questa lotta mi è costata moltissimo, perché ho sacrificato la famiglia e molte altre cose della mia vita, ma non ho mai avuto alcun ripensamento.

Perché questa lotta dovrebbe riguardare anche i paesi occidentali?

I problemi che abbiamo di fronte sono globali. La crisi climatica, la crisi alimentare, la crisi dei valori influiscono su tutti e su tutte. Non è una lotta tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud del mondo. Comprendere che questa è una lotta comune ci permetterebbe di combattere insieme per uno stesso obiettivo: un mondo migliore, più vivibile e più rispettoso dei diritti.