A cosa sono serviti i soldi dell’European trust fund?

Un’ampia quota dell’European trust fund è stata investita nell’esternalizzazione delle frontiere invece di affrontare le cause delle migrazioni

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Alla fine del 2021 si è concluso il progetto europeo dell’European trust fund, il fondo fiduciario d’emergenza per l’Africa. Insieme ad altre redazioni che fanno parte dello European Data Journalism Network, sotto la direzione di Deutsche Welle, abbiamo ricostruito, attraverso i dati, come sono stati gestiti questi soldi.

Ne emerge che un’ampia quota dei finanziamenti è stata dedicata a attività di controllo dei confini esterni dell’Europa e a politiche di condizionalità degli aiuti. Una strategia di esternalizzazione delle frontiere che ormai caratterizza fortemente l’approccio europeo alla cooperazione internazionale. E che vede nel contributo italiano ai progetti European trust fund in Libia un esempio particolarmente illustrativo.

Che cos’è l’Eutf, l’European trust fund

L’Eutf, acronimo di European trust fund, è un fondo fiduciario, istituito dalla Commissione europea insieme a 25 stati membri dell’Ue, Norvegia e Svizzera. Con lo scopo dichiarato di contribuire alla stabilizzazione del continente africano e affrontare le cause della migrazione irregolare e dello sfollamento.

Il fondo è nato in un periodo di afflussi consistenti verso l’Europa di migranti provenienti dai Paesi africani. Specificamente, è stato introdotto durante il summit sulle migrazioni tenutosi a Malta nel 2015. Evento che ha visto la partecipazione dei capi di Stato e di governo dei Paesi Ue e quelli dei Paesi africani maggiormente coinvolti nei flussi migratori. Il programma è stato poi portato avanti fino alla fine del 2021.

Il fondo è stato pensato come soluzione concreta nell’ambito della European agenda on migration, anch’essa del 2015. La quale identificava 4 pilastri di azione per gestire il fenomeno migratorio:

  • ridurre gli incentivi alla migrazione irregolare;
  • gestire le frontiere: salvare vite umane e rendere sicure le frontiere esterne;
  • onorare il dovere morale di proteggere: una politica comune europea di asilo forte;
  • una nuova politica di migrazione legale.

Nell’ambito del progetto, l’Italia è stata uno dei principali contributori, seconda, come quota di fondi stanziati, soltanto alla Germania.

Italia secondo contributore dell’European trust fund

Con 232 milioni di euro, equivalente al 37,2% del budget totale, la Germania è stata il principale contributore da un punto di vista economico. Segue l’Italia con un contributo pari a 123 milioni (per il 19,7% del totale). Tutti gli altri Paesi hanno invece stanziato risorse per meno del 10% ognuno, di cui 13 per meno dell’1%. Il budget totale, che era partito da 1,9 miliardi nel 2015, nel corso di questi 6 anni ha superato i 5 miliardi di euro.

Grazie a questi fondi, sono stati realizzati più di 250 progetti – anche se non tutti ancora portati a termine. Di questi, 193 sono stati svolti in un unico Paese (per il 71% del budget complessivo), mentre 48 si sono articolati su più Paesi (per il 27% del budget) e 12 non hanno riportato esplicitamente il proprio luogo di svolgimento.

Il budget mediano per progetto è stato di 12,8 milioni di euro. Con 24 progetti che hanno ricevuto più di 47 milioni.

Dove sono andati i soldi del fondo?

L’European trust fund è stato pensato per l’Africa. Tuttavia non tutti i Paesi del continente hanno beneficiato ugualmente dei finanziamenti.

I progetti sono stati articolati specificamente su 3 aree di investimento. Il Corno d’Africa (comprendente Burkina Faso, Camerun, Ciad, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria e Senegal), la zona comprendente il lago Sahel e il Ciad (e specificamente Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Tanzania e Uganda) e l’Africa settentrionale (Algeria, Egitto, Libia, Marocco e Tunisia). Alla prima area è stata destinata la quota maggiore di finanziamenti, pari al 43% del totale. Mentre alla seconda è stato destinato il 38% e alla terza il 16%.

I singoli Paesi che hanno ottenuto la quota di fondi più elevata sono stati il Sudan, la Somalia e la Libia. Anche se il Niger sale al secondo posto se consideriamo il numero di progetti anziché gli importi a essi destinati.

Da solo, il Sudan ha infatti beneficiato di circa il 9% di tutti i fondi predisposti dall’Eutf. Lo seguivano la Somalia, con l’8,6%, e la Libia (7,3%).

E in cosa sono stati investiti i fondi dell’European trust fund?

I progetti dell’European trust fund, consultabili qui, sono stati classificati per aree tematiche, articolate in 4 ampi settori di intervento:

  • il miglioramento e accrescimento delle opportunità economiche e di impiego;
  • la gestione o prevenzione di conflitti;
  • il miglioramento della governance locale;
  • la gestione dei flussi migratori.

Quest’ultima area tematica, in particolare, ha ricoperto un ruolo molto rilevante. È infatti l’oggetto cui è stata destinata la quota più elevata di fondi (circa un quarto del totale), seguita dal miglioramento della governance e dalla prevenzione dei conflitti (20%) e dal rafforzamento della resilienza (17,1%).

Parliamo di circa 1,3 miliardi di euro investiti della gestione dei flussi migratori nei Paesi del continente africano. Una cifra molto elevata e che oltretutto costituisce una sottostima. Ciò se consideriamo che molti progetti hanno toccato più aree tematiche (mentre il dato si riferisce solo ai progetti esclusivamente dedicati alla gestione delle migrazioni) o non hanno riportato esplicitamente le propria finalità.

Secondo le stime realizzate dalle organizzazioni Cini e Concord nel report “Partnership o condizionalità dell’aiuto?”, tenendo conto anche di queste variabili emerge che quasi la metà di tutti i finanziamenti dell’European trust fund sarebbero stati spesi per la gestione dei flussi migratori verso l’Europa.

Ma in cosa consiste, concretamente, la voce “gestione dei flussi migratori”?

Secondo i propositi stilati dell’Eutf stesso, si tratterebbe di un cluster di attività di vario genere. Ad esempio, offrire sostegno alle istituzioni locali che si occupano di migrazione, migliorare le capacità di prevenire l’immigrazione irregolare e combattere il traffico di esseri umani. Ma anche creare opportunità concrete di rimpatrio volontario e di reintegrazione nel paese di origine.

Si tratterebbe insomma di un modo per prevenire, creando più opportunità ma anche potenziando le strategie di controllo dei confini, le migrazioni verso l’Europa. Un modo quindi di arginare a monte i flussi che è da diversi anni parte della strategia anti-migratoria dell’Ue – una strategia di esternalizzazione delle frontiere.

Una soluzione che l’Europa ha ripetutamente messo in atto negli ultimi anni ma che tuttavia appare piuttosto miope e a breve termine. Infatti, essa non agisce in profondità sulle cause reali della migrazione né garantisce un approccio sostenibile e rispettoso dei diritti umani. Inoltre, avviene a scapito di maggiori investimenti in servizi essenziali come sanità e istruzione nei Paesi beneficiari delle politiche di cooperazione. Che invece sarebbero realmente capaci di ridurre i flussi, migliorando le condizioni di vita delle persone nei loro Paesi di provenienza. Oltre ad essere le reali ragioni che muovono o dovrebbero muovere l’aiuto pubblico allo sviluppo.

I Paesi chiave si trovano nell’Africa settentrionale

L’azione europea finanziata dal fondo fiduciario a questo specifico scopo si è concentrata in alcuni Paesi chiave. Non sorprende che quasi tutti appartengano all’Africa settentrionale, un punto di transito fondamentale per i migranti intenzionati a recarsi in Europa.

Parliamo in particolare di Egitto, Tunisia, Marocco e Libia. L’Egitto è stato però coinvolto soltanto in due progetti. Entrambi aventi come tema la gestione dei flussi migratori, mentre in Tunisia se ne sono svolti 3. Nel caso del Marocco invece i progetti totali sono stati 8, dei quali 7 per la gestione dei flussi. E infine nel caso della Libia parliamo di 13 progetti portati avanti nel Paese in totale, di cui 10 sono stati dedicati a tale scopo.

I restanti 3 non hanno però nessuno scopo esplicito. E lo stesso sito dell’Eutf riporta che tutti i progetti in Libia sono stati articolati intorno alla questione migratoria.

La Libia, uno dei principali beneficiari

In totale, sono 26 i Paesi africani che hanno beneficiato dei fondi europei, ma alcuni, come abbiamo visto, hanno ricevuto per una serie di ragioni quote più elevate di fondi.

Tra questi spicca la Libia. Paese che negli anni ha intessuto rapporti molto stretti con l’Italia e che oltretutto rappresenta un punto di transito fondamentale per i flussi di migranti verso il nostro Paese. La rotta del Mediterraneo centrale passa infatti proprio per la Libia. Ed è una delle rotte migratorie più importanti, oltre che una delle più pericolose per chi la intraprende.

La situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che la Libia è un Paese fortemente instabile da un punto di vista politico, con un governo riconosciuto dall’Onu debole, che controlla una parte minima del Paese, una serie di milizie attive su tutto il territorio nazionale, e di fatto una condizione di guerra civile in corso. Per i migranti si è dimostrato un luogo di soggiorno e di transito particolarmente pericoloso, per via della scarsa sicurezza e per la presenza di numerosi centri di detenzione in cui gli abusi sono all’ordine del giorno.

Una situazione che ha portato anche l’allora alto commissario Onu per i diritti umani a esprimere sdegno. Sottolineando che la sofferenza dei migranti nei centri di detenzione libici non poteva essere giustificata nell’ottica di una riduzione degli arrivi in Europa.

La politica del “more for more, less for less”

Secondo Cini e Concord, la scelta di stanziare una quota così elevata dei fondi Eutf in Libia andrebbe anche compresa nell’ottica della politica, spesso attuata dall’Unione europea, del “more for more, less for less”, con cui si intende una più consistente allocazione di fondi ai Paesi che più si impegnano nella gestione delle migrazioni. Un modo per “premiare” gli stati che aiutano l’Europa a difendere le proprie frontiere esterne, di fatto quindi strumentalizzando a fini politici le risorse della cooperazione internazionale.

Di questi, quasi 310 sono stati investiti nei progetti di gestione dei flussi migratori. Pur essendo la Libia un Paese vessato da conflitti e caratterizzato da una situazione di crisi umanitaria e che quindi trarrebbe beneficio da aiuti economici di altro tipo.

Il ruolo dell’Italia in Libia

Importante è stato, sotto questo aspetto, il contributo italiano. Sono 10 le organizzazioni italiane che hanno partecipato come soggetti attuatori all’European trust fund, tra enti pubblici e ong.

Si tratta dell’agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), della cassa depositi e prestiti spa (Cdp), di Cesvi, del comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli, di Coopi cooperazione internazionale, dell’ambasciata italiana in Etiopia, di Italian Development Cooperation, del ministero degli interni, di Lvia e del ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale.

Un progetto, con un contributo Eutf di 50 milioni di euro, ha visto la partecipazione dell’Aics. Il secondo, con un contributo Eutf di 23 milioni di euro e un co-finanziamento di altri 2,2 miliardi da parte dell’alto commissariato Onu per i rifugiati, ha coinvolto Cesvi. Il terzo, con un contributo Eutf di 25 milioni, ha coinvolto nuovamente l’Aics.

Oltre a questi, un quarto progetto è stato interamente implementato dal ministero dell’interno. Si tratta di un progetto dal costo complessivo di 42,2 milioni di euro, con un co-finanziamento aggiuntivo di altri 4 milioni. Lo scopo dichiarato del progetto è quello di migliorare la capacità dei libici di controllare i propri confini.

Gli obiettivi del piano sono articolati nel modo seguente:

  • Sostegno alla guardia costiera libica nella forma di addestramento e concessione di attrezzatura;
  • Potenziamento delle capacità di mantenimento ordinario delle imbarcazioni;
  • Allestimento di due sale operative a Tripoli;
  • Attività pilota per incrementare le capacità delle autorità libiche competenti di implementare un controllo efficace e responsabile dei confini;
  • Azioni di ricerca e soccorso di migranti nel deserto.

Una serie di obiettivi mirati quindi a un incremento del controllo lungo i confini del Paese e a un potenziamento della capacità di gestire emergenze in mare (ovvero, di riportare i migranti indietro, verso porti non sicuri).

Le critiche delle organizzazioni umanitarie

Si tratta di una scelta che è stata criticata, tra gli altri, da Oxfam, Amnesty international, Cini e Concord, e che conferma una tendenza ormai consolidata negli ultimi anni, di cui abbiamo parlato in numerosi approfondimenti. L’Italia ha infatti intessuto negli ultimi anni relazioni di collaborazione con la Libia. A partire dal memorandum di intesa Italia-Libia siglato nel 2017 dall’allora ministro dell’interno Marco Minniti e poi rinnovato nel 2020, con la finalità esplicita di tenere i migranti al di fuori dei confini italiani. Questo nonostante il Paese nordafricano abbia registrato numerosi casi di abuso, detenzione arbitraria, tortura, sfruttamento e estorsioni ai danni dei migranti che vi transitavano.

Un approccio orientato alla sicurezza che ha caratterizzato anche le missioni internazionaliin cui l’Italia è stata coinvolta, di cui molte hanno interessato la Libia e sempre in un’ottica di gestione dei flussi migratori.

Nel frattempo, la strategia non sembra essere cambiata e il nostro Paese non sta sviluppando appositi corridoi umanitari. Anziché lavorare a soluzioni a lungo termine, come il resto d’Europa ha preferito investire milioni di euro nell’esternalizzazione delle proprie frontiere. Questo è evidente, ancora una volta, dalle scelte politiche che hanno animato il fondo fiduciario per l’Africa.

Si trattava di un’opportunità per contribuire allo sviluppo e al miglioramento delle condizioni di un continente vessato da conflitti, disastri naturali e instabilità, scelta che tra l’altro avrebbe con maggiori probabilità influito sui flussi migratori. E invece si è trasformata in un’occasione per chiudere ancora di più i confini, escludendo senza al contempo offrire soluzioni alternative – di fatto una distorsione delle finalità dell’aiuto pubblico allo sviluppo.


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