Laurearsi? In Italia (quasi) inutile per trovare lavoro e aumentare il reddito

Oltre 1/3 dei neolaureati italiani non trova impiego. Peggio di noi solo Atene. E il gap occupazionale con i neodiplomati è minimo. Un disincentivo a studiare

Matteo Cavallito
Escludendo i mutui i debiti universitari rappresentano oltre il 7% dei debiti complessivi delle famiglie italiane
Matteo Cavallito
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L’Italia? Non è un Paese per laureati. Lo dicono i numeri e lo conferma il confronto con le cifre di gran parte dei Paesi europei. Per oltre un terzo dei giovani, concludere con il successo il percorso universitario, qui da noi, non garantisce un impiego, nemmeno precario. Uno dei peggiori dati d’Europa segnala Eurostat. Il tasso medio continentale, in particolare, resta a distanza siderale: un 85,5% già capace di superare la nota quota-obiettivo (82%) fissata per il 2020.

Peggio di noi solo la Grecia

«Nemo reperitur qui sit studio nihil consecutus» – non si trova nessuno che non abbia ottenuto qualcosa dallo studio – scriveva Quintiliano. Ma le ricompense non sono certo uguali per tutti. A non più di tre anni dalla laurea, quasi il 97% dei maltesi ad esempio risulta occupato. Bene anche Germania e Olanda, dove il dato supera il 90%, così come Repubblica Ceca, Austria, Lussemburgo e Svezia dove la quota dei neolaureati al lavoro resta decisamente più elevata rispetto alla media continentale.

Basta volgere lo sguardo altrove, tuttavia, per scoprire numeri assai più deludenti. E se la Grecia – dove il tasso di occupazione della categoria si ferma al 59% – piange il suo tristissimo primato, l’Italia non ride di certo. Secondo gli ultimi dati disponibili, nella Penisola la quota dei lavoratori tra chi possiede un recente titolo universitario raggiunge appena il 62,8%. Meglio di noi, per capirci, anche due nazioni emergenti che ancora non hanno aderito alla UE: la Serbia (68,9%) e il Montenegro (65,6%). Un disastro.

Troppo facile prendersela (solo) con la crisi

Secondo Eurostat, i neolaureati delle ultime generazioni avrebbero scontato anche gli effetti della crisi finanziaria. Nel 2008, per dire, il tasso di occupazione medio della categoria si attestava, in Europa, all’86,9% mentre nel 2014 si era scesi al’80,5%. Da allora il dato ha ripreso a salire e il gap occupazionale con i neodiplomati di scuola superiore (che hanno minori probabilità di trovare lavoro rispetto ai colleghi usciti dall’università) si è ridotto passando da quasi 10 a meno di 8 punti percentuali.

La crisi, tuttavia, non spiega la peculiarità. Considerando sia i giovani possessori di una laurea che i loro coetanei diplomati, il tasso di occupazione registrato in Italia si ferma al 56,5%. Un livello tuttora inferiore a quello pre-crisi che, statistiche alla mano, superava il 60%. Ma ad emergere è anche un altro aspetto: ancora prima che gli effetti del terremoto finanziario colpissero le economie del Vecchio Continente, i livelli occupazionali dei giovani più istruiti in Italia risultavano già allora decisamente più bassi rispetto alla media europea. Perché?

«Università e impresa sono mondi paralleli»

Secondo Francesco Seghezzi, ricercatore dell’Università di Modena e Reggio Emilia e presidente della Fondazione ADAPT, a spiegare il caso italiano intervengono almeno due fattori:

  • Da un lato la storica debolezza dell’occupazione registrata nella Penisola;
  • dall’altro la difficoltà di stabilire punti di incontro tra la formazione e la richiesta delle aziende.

«Non basta formare un laureato per generare un posto di lavoro, soprattutto se università e mondo dell’impresa vivono in mondi paralleli» ha scritto di recente Seghezzi sulle colonne del Sole 24 Ore.

Il risultato è paradossale: tanti lavoratori sovra-qualificati «si trovano a svolgere mansioni inferiori rispetto alle competenze di cui il mercato ha bisogno». Faticando a trovare un lavoro per cui siano richieste le loro capacità, in altre parole, molti lavoratori accetterebbero in definitiva di svolgere mansioni meno prestigiose rispetto al proprio bagaglio di formazione – come impieghi tecnici nella manifattura o servizi alla persona – per le quali le aziende, paradossalmente, non riescono a trovare operatori specificamente qualificati.

I dati, sostiene ancora il quotidiano della Confindustria citando le rilevazioni Istat, parlano chiaro: il divario tra le richieste delle imprese e l’offerta formativa fa sì che circa un quarto dei giovani lavoratori italiani (1,1 milioni di individui) si trovi nella situazione di cui sopra (un fenomeno che riguarda soprattutto i laureati: 28% del totale). Contemporaneamente il 27% circa dei giovani diplomati e laureati svolge un lavoro per il quale non è sufficientemente istruito o competente.

L’università italiana è la più «povera» d’Europa

Infine la spesa pubblica, un altro fattore problematico. Secondo la Commissione UE le risorse messe a disposizione dall’Italia per l’istruzione rappresentano solo il 7,9% della spesa dello Stato, contro una media europea del 10,2%, per una cifra pari al 3,9% del Pil (contro il 4,7% medio registrato nel Continente). «Mentre la quota dei finanziamenti destinati alla scuola primaria e secondaria è sostanzialmente in linea con le medie UE», scrive la Commissione, «la spesa per l’istruzione terziaria è la più bassa dell’Unione dopo il Regno Unito, con appena lo 0,3% del Pil nel 2016, ben al di sotto della media continentale dello 0,7%». Un problema irrisolto che continua a pesare sul destino dell’università italiana e dei suoi laureati. E in definitiva sull’intero sistema-Paese.