I prezzi agricoli dipendono da dinamiche interamente finanziarie

La finanza domina ogni ambito della produzione di cibo e con i suoi strumenti determina i prezzi agricoli, scontentando gli agricoltori

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Le proteste degli agricoltori in gran parte dell’Europa hanno varie motivazioni, diverse da zona a zona, ma una è comune a quasi tutti i contesti. Si tratta della micidiale instabilità dei prezzi dei prodotti agricoli, il cui andamento è sempre più slegato dalle dinamiche produttive e dalle condizioni della domanda e dell’offerta reali, dipendendo invece da dinamiche interamente finanziarie.

La determinazione dei prezzi agricoli avviene in primis nelle grandi Borse merci del Pianeta, in particolare in quelle di Chicago, di Parigi, di Londra e di Mumbai, che non sono istituzioni “pubbliche”, bensì realtà private i cui principali azionisti sono costituiti dai più grandi fondi finanziari globali. Nel caso del Chicago Mercantile Exchange, i pacchetti più rilevanti sono in mano a Vanguard, BlackRock, JP. Morgan, State Street Corporation e Capital International Investitors. Presenze in parte simili compaiono nella Borsa di Londra e in altre sedi minori.

A questo dato se ne aggiunge un altro, fondamentale. Soprattutto nelle Borse di Chicago, di Londra e di Parigi la stragrande maggioranza degli operatori non è costituita da produttori e compratori reali, quelli cioè che producono realmente il grano e quelli che lo comprano realmente, ma da grandi fondi finanziari e da fondi specializzati nel settore agricolo che, senza aver alcun contratto di compravendita dei beni, scommettono sull’andamento dei prezzi. E sono proprio soprattutto le scommesse a determinare i prezzi reali

Il caso dei “derivati meteorologici”

C’è, a tal proposito, una singolare storia che vorrei provare a raccontare in poche righe. Esistono ormai dalla metà degli anni novanta i “derivati meteorologici”. Si tratta di prodotti finanziari nati in origine per coprire i produttori agricoli contro il rischio di condizioni meteorologiche avverse. A tale scopo esistevano ed esistono le assicurazioni specifiche ma, in realtà, simili strumenti tendono a riguardare solo gli eventi estremi. Sono nati così i derivati, con l’intento di garantire una copertura anche da rischi meno gravi. Quindi un produttore di cereali che avesse temuto una stagione poco o troppo piovosa avrebbe potuto comprare i derivati e coprirsi.

Dall’inizio del nuovo millennio, però, il mondo dell’onnipotente finanza ha deciso, con il pieno avallo delle istituzioni internazionali, di consentire l’acquisto e la vendita di questi titoli anche a chi non fosse legato alla produzione dei beni soggetti alle oscillazioni climatiche, trasformandoli così in vere e proprie scommesse. Se le aspettative dei fondi sono orientate all’aumento dei prezzi, scommettono al rialzo e trascinano così i prezzi a livelli insostenibili, in caso contrario puntano direttamente al ribasso, giocando sullo scoperto, con danni pesanti per i produttori.

Dunque all’origine delle instabilità dei prezzi si pongono gli strumenti finanziari generati da questi fondi “scommettitori”, i quali sono anche, come appena ricordato, i “proprietari” delle Borse stesse. Non hanno nulla a che fare con la produzione e il commercio reali dei beni agricoli scambiati, ma sono i principali player di prezzo.

Sono i colossi finanziari che determinano la formazione dei prezzi agricoli

Tuttavia, la finanziarizzazione dei processi di determinazione dei prezzi di beni agricoli presenta altri elementi sconcertanti. Come detto, nelle Borse, a fronte di tanti fondi finanziari, ci sono pochi produttori. Ma i produttori chi sono? Nel caso dei cereali, si tratta di quattro grandi società: Archer-Daniels Midland, Bunge, Cargill e Dreyfus. Le prime due in particolare sono possedute dai grandi fondi, Vanguard, Black Rock e State Street: i medesimi operatori finanziari nelle Borse merci di Parigi, Londra e Chicago.

L’intera dinamica della formazione dei prezzi agricoli, su cui incidono assai poco le retribuzioni del lavoro contadino, strutturalmente molto basse, risulta pertanto nelle mani di colossi finanziari che controllano Borse, scommesse e produzione: un gigantesco monopolio mondiale rispetto al quale ogni altra variabile, persino quella dell’offerta complessiva di beni agricoli, appare decisamente secondaria.

I fondi d’investimento hanno in mano anche il sistema alimentare

Del resto, i fondi hanno in mano anche il complesso del settore alimentare. Tra le prime dieci società per fatturato troviamo Associated British Foods (di cui Berkshire possiede il 9,2%, Vanguard l’8,5, BlackRock il 7 e State Street il 4), Kellogg’s, (che è nelle mani di Vanguard per il 9%, di BlackRock per il 9 e di State Street per il 3,8),  Mondelez (di cui Vanguard detiene il 9,1%, BlackRock il 7,3 e State Street il 4,4), Pepsico (che è posseduta da Vanguard per il 9,3, da Black Rock per il 7,8 e da State Street per il 4,2%).

Il processo di concentrazione ha ancora ulteriori risvolti. I terreni agricoli degli Stati Uniti sono circa 900 milioni di acri; di questi una trentina sono nelle mani di una ristretta cerchia di grandi finanzieri che li hanno comprati non certo per interessi agricoli. Si tratta di John Malone, grande azionista dei media, di Ted Turner, di Jeff Bezos, di Bill Gates e di pochi altri. Hanno acquistato queste sterminate pianure perché il prezzo della terra, negli Stati Uniti, è cresciuto tra il 2021 e il 2022 del 34%. Si tratta di un aumento trascinato dalla lievitazione dei prezzi dei cereali, a loro volta infiammati dalla speculazione dei titoli derivati sui cereali stessi. Così i grandi finanzieri, che hanno scommesso sui derivati, possono comprare e vedono crescere il valore dei terreni che acquistano.

La finanza sta monopolizzando la già monopolistica agricoltura americana consegnando ad un club di ultramiliardari la determinazione dei prezzi mondiali.