Trasporti marittimi: la transizione ecologica è ancora lontana
Le navi emettono molti gas climalteranti. Gli armatori chiedono fondi per la svolta green: corridoi verdi e nuovi motori hi-tech
Navi e gas a effetto serra – CO2, ma anche metano e protossido d’azoto – sono un binomio consolidato e un dolentissimo tasto ambientale. Secondo l’IMO (l’autorità di regolamentazione delle Nazioni Unite del settore marittimo), la quota delle emissioni climalteranti del trasporto marittimo rispetto a quelle globali di origine antropica è aumentata dal 2,76% del 2012 (977 milioni di tonnellate) al 2,89% del 2018 (1.076 milioni di tonnellate).
Eppure solo di recente si è mosso qualcosa per contrastare l’enorme contributo al riscaldamento globale di questo settore-chiave della cosiddetta supply chain. Ovvero la catena di fornitura globale che sostiene produzione e commercio internazionali. Almeno da quando, nel 2015, l’Europa ha adottato l’EU MRV Regulation (il Regolamento UE sul monitoraggio, la comunicazione e la verifica delle emissioni dei trasporti marittimi). E da che le analisi delle emissioni sono finalmente periodiche e diffuse (recente lo European Maritime Transport Environmental Report 2021, ad esempio).
E anche sul fronte dei colossi privati coinvolti, la consapevolezza del grave ritardo nel settore emerge. La certificano timide iniziative di semplice “trasparenza” come Cargo Clean, l’impongono i numeri. Circa il 90% dei volumi del commercio globale (14mila miliardi di dollari di valore) avviene per mare. E tali volumi si reggono sul consumo di 4 milioni di barili di petrolio al giorno (il 4% della produzione mondiale). I combustibili fossili, cioè una delle principali cause del climate change, coprono ancora il 98% del fabbisogno totale di carburante delle navi.
Navi amiche del clima? I big battono cassa: transizione tutta da costruire
Così, a ottobre 2021, a pochi giorni dalla COP26 di Glasgow, l’ICS (International Chamber of Shipping), organismo che rappresenta le associazioni nazionali di armatori mondiali e oltre l’80% della flotta mercantile mondiale, batteva un colpo. L’ICS presentava infatti all’IMO un piano per azzerare le emissioni nette di CO2 entro il 2050. Con misure urgenti che i governi dovrebbero adottare per aiutare l’industria. Tradotto: per la decarbonizzazione del comparto servono aiuti pubblici ingenti (Esben Poulsson, presidente ICS: «Stiamo dicendo ai governi che, se vogliono davvero raggiungere lo zero netto, devono passare da impegni vuoti ad azioni tangibili»).
Al centro è posta la necessità di investimenti su nuove tecnologie e carburanti per la propulsione. Perché – denuncia la IEA – solo lo 0,1% dell’energia consumata nelle spedizioni proviene da combustibili a basse emissioni. Un dato irrisorio che fa il paio con un declino della spesa in ricerca e sviluppo nel settore marittimo privato, scesa da 2,7 miliardi di dollari nel 2017 a 1,6 miliardi di dollari nel 2019.
Per invertire la rotta in extremis l’ICS identifica perciò «265 progetti necessari a rimuovere gli ostacoli chiave verso soluzioni tecnologiche ad alto potenziale». Motori a idrogeno, ammoniaca ed elettrificazione, innanzitutto. Ma per finanziare questi progetti servirebbero 4,4 miliardi di dollari. Chi ce li metterà?
Sconti sulla CO2: la scappatoia per gli armatori arriva da Bruxelles
Tutto questo mentre un nuovo studio dell’organizzazione internazionale Transport & Environment (T&E) lancia un allarme. «Oltre 25 milioni di tonnellate di CO2 – equivalenti alle emissioni totali di CO2 della Danimarca – sono esenti dalla carbon tax proposta dall’Ue per il trasporto marittimo».
Il riferimento è alla proposta di schema di tariffazione della CO2 (ETS) per le spedizioni avanzata a luglio 2021 dalla Commissione europea. Il sistema, che si applica solo sulle navi di una certa stazza, include infatti numerose esenzioni. Ad esempio, per le navi da pesca e militari, e per le navi che servono in alto mare i trasporti di gas e petrolio, «nonostante emettano in media più delle navi portarinfuse e delle petroliere». La somma di tali esenzioni varrebbe quasi il 20% delle emissioni navali dell’UE, «il doppio di quanto la Commissione aveva inizialmente affermato che l’esenzione avrebbe coperto».
Corridoi verdi in mezzo al blu: strategia per incentivare la transizione
Esenzioni a parte, serve trasformare il comparto e ridurne l’impatto. A questo contribuirebbe, stando a un’analisi e un rapporto rilanciati dalla multinazionale di consulenza strategica McKinsey, la creazione di «“corridoi verdi”. Rotte commerciali specifiche tra i principali hub portuali in cui sono supportate soluzioni a emissioni zero». Rotte privilegiate dove un’ecosistema politico, normativo, d’incentivazione finanziaria e fiscale, di servizi e forniture favorirebbe quindi l’impiego di imbarcazioni e tecnologie eco-compatibili.
McKinsey sostiene infatti che tali tecnologie siano già disponibili e necessitino “solo” di essere implementate su grande scala e più velocemente. Cioè che servano investimenti per abbattere i costi, poiché gli attuali carburanti a emissioni zero (il rapporto cita idrogeno verde, ammoniaca verde, metanolo verde e diesel verde) aumenterebbero il costo di proprietà di una nave tra il 40 e il 60%, a seconda della rotta. E il rapporto fornisce perciò studi preliminari di fattibilità su «due rotte che potrebbero diventare corridoi verdi: la rotta Australia-Giappone del minerale di ferro e la rotta Asia-Europa per navi portacontainer».
La strategia dei corridoi verdi è stata lanciata alla Cop26 ed è definita dalla “Dichiarazione di Clydebank”, cui finora ha aderito una ventina di Paesi (Italia inclusa). Associate alla disponibilità di imbarcazioni a zero emissioni e infrastrutture di bunkeraggio (serbatoi di stoccaggio, navi per il rifornimento…), queste rotte dovrebbero rappresentare un volano per la trasformare il trasporto marittimo. Dovrebbero convincere, finalmente, governi, principali armatori, spedizionieri globali e multinazionali loro clienti a investire massicciamente e rapidamente sulla transizione ecologica.
T&E: corridoi verdi? Approccio interessante, ma attenti al greenwashing
La domanda è però se queste proposte di soluzione al ritardo del settore navale nella riduzione delle proprie emissioni di gas a effetto serra siano le più efficaci. Perciò abbiamo chiesto una valutazione a Jacob Armstrong, esperto di sostenibilità del trasporto marittimo per l’organizzazione internazionale Transport & Environment.
«In teoria i corridoi verdi – ha risposto – sono un approccio interessante per spingere la decarbonizzazione. Tuttavia, in pratica ci sono alcune serie preoccupazioni sulla sostenibilità e la governance dei corridoi verdi così come sono ora concepiti. In particolare, la Dichiarazione di Clydebank presenta tre problemi principali:
1. Non esiste una definizione di “verde”, quindi è molto probabile che un fornitore australiano di gas naturale possa produrre “idrogeno blu” (una tecnologia estremamente problematica) e spacciarlo per verde. Questo sarebbe chiaramente greenwashing.
Greenwashing & Co.
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2. Non c’è un numero definito di quante navi costituirebbero un corridoio verde, quindi la preoccupazione è che una nave su centinaia che operano tra due porti basti per rendere “green” quella rotta.
3. Non esiste una chiara struttura operativa o una governance».
Riguardo invece il piano avanzato da ICS, Armstrong sottolinea che «il rapporto, e l’ICS in generale, sono stati molto deboli in merito a una regolamentazione seria. È vero che, come sostengono nel loro rapporto, i fondi per i progetti verdi sono necessari. Ma porteranno a rendere la norma le navi ecologiche solo se accompagnati da una forte regolamentazione. Standard rigidi per i combustibili (che impongano combustibili a emissioni zero prima del 2050) e la tassazione della CO2 o la fissazione dei prezzi devono essere adottate nell’Ue, in Cina, negli Stati Uniti e in altri Stati. Affinché il trasporto ecologico in linea con l’Accordo di Parigi sia possibile».