Gli stipendi dei calciatori che fanno invidia alla grande finanza

Gli stipendi di calciatori e dirigenti di azienda ci raccontano il mercato finanziario scollegato dalla produzione materiale

Venduti i box vip del Camp Nou fino al 2045 per pagare gli stipendi ai calciatori © Ayman.antar7/Wikimedia Commons

«Gli stipendi dei padroni devono essere equiparati a quelli dei calciatori», dice al Financial Times il finanziere miliardario Lord Michael Spencer. La provocazione dell’ex tesoriere del partito conservatore del Regno Unito e poi fondatore della società di brokeraggio Icap ci dice molte cose. Innanzitutto ci dice che i padroni, oggi come ieri, sono sempre più avidi e rapaci. Vivono in un mondo scollegato dalla realtà, fatto di flussi finanziari, che nulla ha a che fare con la produzione materiale dei beni. Ma ci dice anche un’altra cosa. Ovvero che gli stipendi dei calciatori sono diventati oramai il simbolo di questo scollegamento tra realtà materiale e metafisica finanziaria.

La sperequazione tra stipendi di padroni e calciatori e la vita reale

Ovviamente la provocazione di Lord Spencer non ha alcun fondamento con la realtà. Basta vedere il grafico pubblicato nello stesso Financial Times. Qui si vede come negli ultimi dieci anni lo stipendio medio di un calciatore della Premier League sia salito da 1 a 2 milioni di sterline l’anno. Mentre quello dei Ceo delle società quotate nell’indice borsistico britannico Ftse sia oscillato sempre intorno ai 4 milioni di sterline l’anno. I padroni guadagnano più dei calcatori. Le sue frasi servono quindi solo per attaccare il governo laburista, perché abbassi le tasse sulle imposte sulle transazioni finanziarie della City. Ma ci consentono di ragionare su come gli stipendi dei calciatori siano diventati una scommessa finanziaria.

Intendiamoci su alcuni punti fermi. Primo. Se un calciatore guadagna x è perché il suo datore di lavoro grazie alle sue prestazioni guadagna almeno dieci o venti volte x. Quindi non ruba i soldi a nessuno. Anzi, potrebbe essere equiparato a un operaio specializzato nella catena di valore del pallone. A differenza di un Ceo della City. Secondo. Non certo da oggi, da sempre i calciatori hanno guadagnato cifre astronomiche. Fuori dai rapporti di produzione. Per capirci, negli anni Settanta Gianni Rivera guadagnava 6 milioni di lire al mese, mentre un operaio guadagnava 352mila lire al mese. Già mezzo secolo fa lo stipendio di un calciatore era diciassette volte maggiore rispetto a quello di un lavoratore medio. E da allora, ovviamente, la forbice si è allargata.

Il calciatore oggi non è una merce, ma un prodotto finanziario

Nel 1994, un anno prima della Sentenza Bosman, che avrebbe abbattuto il cartellino, liberalizzato il mercato dei calciatori, un calciatore in Serie A guadagnava in media 782 milioni di lire l’anno. Un operaio 15,6 milioni. Cinquanta volte di meno. Nel 2001, all’apice della bolla speculativa della Serie A, un calciatore guadagnava in media 2 miliardi e 150 milioni. Un operaio 16,8 milioni. Centoventisette volte di meno. È qui, in questo lasso di tempo, che avviene il salto quantico della finanziarizzazione del mondo. E quindi del pallone. Con il calciatore che passa da essere semplice merce a prodotto finanziario, una flusso di denaro su cui scommettere al rialzo o al ribasso senza preoccuparsi delle sue reali capacità produttive.

Oggi nel punto più avanzato dello sviluppo capitalista calcistico, la Premier League inglese, un calciatore in un anno guadagna in media tra i 2,7 milioni di euro (dati del Financial Times) e i 4,1 milioni di euro (dati di Off The Pitch 2023). Lo stipendio annuale di un cameriere a Londra, paragonabile a quello dell’operaio delle catene di montaggio negli anni Settanta di Rivera, è 21mila euro. Quasi duecento volte di meno. Se prendiamo lo stipendio medio del calciatore più pagato, paragonabile per certi versi al Ceo di un’azienda nel Ftse, arriviamo ai 20 milioni di euro l’anno di Foden e Haaland. A questo punto il cameriere a Londra guadagna oltre settecento volte di meno.

Lo stipendio di Carlos Tavares e quello di Dani Olmo

Torniamo in Italia. Qualche settimana fa ha fatto scalpore la buonuscita da 100 milioni di Carlos Tavares, ex Ceo di Stellantis. Alcuni dicono che fosse di meno. Ma il dato interessante è un altro. Negli ultimi tre anni Tavares ha preso stipendi annui (comprensivi di bonus, quello base rimaneva di 2 milioni di euro) nell’ordine di 19, 23 e 36 milioni di euro. Oltre cinquecento volte quello di un suo dipendente. Eppure in quegli anni la parte della produzione materiale di Stellantis è crollata. La produzione di automobili, che ancora si racconta siano il core business della società olandese, è paragonabile a quella degli anni Ottanta. Ma grazie agli investimenti e alle speculazioni finanziarie, la holding che possiede la Juventus ha registrato utili operativi per oltre 60 miliardi di euro.

Lo stesso discorso si può applicare al pallone. Da un punto di vista materiale le squadre di calcio sono una sequela di bilanci in rosso e una voragine di debiti. Secondo l’ultimo report Uefa le perdite complessive dei club europei superano i 37 miliardi di euro. E i debiti aggregati sfiorano i 26 miliardi. Manca la produzione materiale. Eppure pochi giorni fa il Barcellona, che già si è impegnato in operazioni di factoring i guadagni futuri di stadio, diritti tv e calciomercato, ha venduto in anticipo gli affitti dei box di lusso del Camp Nou fino al 2045 (a un misterioso fondi arabo) per pagare lo stipendio di Dani Olmo. Il problema non è quindi se gli stipendi dei padroni debbano essere equiparati a quelli dei calciatori, come dice Lord Spencer, o viceversa. Ma se ancora vogliamo accettare di vivere in una simile realtà.