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Il clima è cambiato, lo dicono le albicocche. La produzione agricola è a rischio

In 40 anni è dimezzata la fioritura su 40 varietà di albicocco in Toscana. I ricercatori: a rischio la produzione futura, è necessario adattarsi al clima

Albicocco - rami fioriti - fonte Università di Pisa e Scuola Superiore Sant'Anna

Il segnale, forte, che qualcosa è già cambiato nel nostro clima arriva dai fiori. Anzi, per l’esattezza dall’osservazione della fioritura degli albicocchi sulla costa tirrenica, in Toscana, con un clima tipicamente mediterraneo.

La ricerca delle università pisane

A certificare che negli ultimi 40 anni l’inverno da queste parti è diventato meno freddo, che la temperatura media a gennaio e a febbraio è aumentata di quasi 2 gradi (da circa 8°C a 9.9°C), è una ricerca appena pubblicata sulla rivista Scientia Horticulture. Un lavoro condotto in collaborazione tra il dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e agro-ambientali dell’Università di Pisa e l’Istituto di scienze della vita della Scuola superiore sant’Anna.

GRAFICO trend temperature medie mensili nel periodo 1973-2016 sulla costa toscana – studio italiano da ‘Scientia Horticulturae’ 244

Gli studiosi hanno analizzato i dati sulla fioritura di 40 diverse varietà di albicocco coltivate nell’Azienda sperimentale dell’ateneo pisano, a Venturina (Li), per oltre quarant’anni, dal 1973 al 2016. Cosa dicano i risultati, se offrano una chiave di lettura più ampia sui cambiamenti climatici, lo abbiamo chiesto alla dottoressa Susanna Bartolini (ricercatrice in arboricoltura generale e coltivazioni arboree), che ha fatto parte del gruppo di ricerca .

L’intervista

«Quello che noi abbiamo osservato per questa specie – spiega Susanna Bartolini – è qualcosa che sta venendo alla ribalta nel nostro campo anche per il mandorlo, per il melo, per altri fruttiferi, non solo in Italia ma anche a livello europeo e globale. Le piante pluriennali sono degli indicatori biologici di quello che succede nell’ambiente dove crescono».

Il problema è che non fa abbastanza freddo quando deve fare freddo?

«Esatto, è la tendenza emersa in questi 40 anni, ricavata dai dati puntuali registrati a livello di campo con i nostri rilevatori di temperatura. C’è effettivamente un trend ad avere degli autunni e degli inverni più caldi rispetto al passato. Siamo andati a indagare proprio il periodo che va dall’autunno alla primavera perché ci siamo accorti di un cambiamento di risposta delle varietà nella loro capacità di fiorire e produrre».

Albicocchi – piante giovani – fonte Università di Pisa e Scuola Superiore Sant’Anna

E se la fioritura diminuisce ci sono meno frutti…

«Noi studiamo la risposta delle piante perché ci interessa la produzione. E il problema per gli anni che verranno, dal punto di vista del produttore, è che dovremo rivedere le scelte varietali. Varietà che potevano andare bene fino a 15 anni fa, non sono più idonee per determinati ambienti. Questo ci deve mettere in allarme.

Le varietà più adattabili, anche le più “plastiche” e resilienti, hanno dimostrato di soffrire, e di dare delle risposte produttive inferiori al passato. È un campanello d’allarme per la frutticoltura».

Il problema è stato acuito dalla velocità con cui è diminuito il freddo?

«Nel grafico sulla caduta delle unità di freddo (CU) riportiamo le temperature utili alla pianta per superare le fasi di dormienza, una fase fenologica delle pluriennali in cui la pianta va in un apparente “letargo”. Cadono le foglie e le gemme a fiore, che sono le gemme riproduttive, che ci daranno i fiori e di conseguenza i frutti, si preparano per la schiusura della primavera successiva. Gli elementi perché ci sia questo superamento della fase di dormienza, di inattività, la pianta li percepisce dai segnali esterni.

GRAFICO crollo delle unità di freddo CU nel periodo 1973-2016 sulla costa toscana – studio italiano da ‘Scientia Horticulturae’ 244

Le temperature e il fotoperiodo agiscono sull’inizio e la fine di questa fase di dormienza, e nelle caducifoglie sono le temperature il parametro più importante: le temperature basse invernali, che devono avvenire tra l’autunno e la prima fase dell’inverno, o chilling temperatures, comprese in un range tra 4 e 10 gradi centigradi. Il nostro grafico mostra come negli anni e nei decenni l’accumulo di temperature utili per l’uscita dalla dormienza abbiano avuto un netto calo, a partire in particolare dagli anni Novanta. Il che ha coinciso con l’aumento delle temperature minime registrate nei mesi autunnali e invernali».

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E questo cosa determina negli albicocchi?

«Ogni varietà ha un cosiddetto fabbisogno in freddo da soddisfare, è un suo carattere genetico. Nell’albicocco ci sono da meno di 800 a più di 1400 unità di freddo di fabbisogno, e la valutazione di questo parametro ci permette di collocare la varietà giusta nell’ambiente giusto. In generale, la perdita di unità utili al superamento della dormienza fa sì che vi sia uno spostamento dell’epoca di fioritura. Ciò comporta uno sfasamento delle fasi fenologiche della pianta. […] abbiamo una sofferenza di molte varietà, perché le gemme che fioriranno saranno in minor numero rispetto a quelle potenziali, provocando quindi un calo netto della produzione».

Qual è il rapporto tra la riduzione delle fioriture e la produttività?

«L’abbondanza della fioritura (cioè il numero di fiori per cm di ramo ed
espressa con un indice da 1, scarsa, a 5, molto abbondante) si è quasi dimezzata rispetto al passato, soprattutto per le varietà a fioritura precoce, passando da un valore medio di 3,7 negli anni ’70 a poco più di 2 nel periodo 2010-16. Pur non potendo dare numeri precisi, possiamo dire che, se la fioritura rilevata è diminuita del 50% – e bisogna dire che non tutti i fiori poi vanno a frutto, perché possono insorgere altri problemi, come ad esempio un’intensa pioggia che ostacola l’impollinazione – si va da questo calo di produzione a valori anche superiori, qualora si verificassero ulteriori alterazioni durante la fioritura.

Si va quindi da un minimo del 50% a un valore “x” non quantificabile, perché ogni anno si caratterizza per qualche anomalia. Il 50% è quindi una percentuale ottimistica».

Anche sulle precipitazioni c’è stato un cambiamento?

«Anche qui abbiamo notato una variabilità nell’arco degli anni. Quelli delle precipitazioni sono dati che mostrano un cambiamento, e staremo a vedere se sarà confermato in futuro. Ciò che è sotto gli occhi di tutti è che gli eventi hanno subito una estremizzazione.

Tuttavia non dobbiamo indulgere all’allarmismo, ma assumere questi dati per avere una cognizione di causa

Abbiamo segnalato questi cambiamenti rispetto a oltre 40 varietà di albicocchi, quindi in maniera puntuale, e questo per il futuro è importante in vista di un miglioramento genetico. Abbiamo gli strumenti oggi per sapere il grado di ereditabilità di determinati caratteri, e quindi possiamo utilizzare queste conoscenze anche per pianificare degli incroci virtuosi, utilizzando le varietà più resilienti, più capaci di adattarsi al cambiamento climatico. Noi l’abbiamo visto per l’albicocco, ma le stesse evidenze stanno emergendo a livello internazionale per altre specie fruttifere, perché le piante sono degli indicatori biologici indiscutibili che ci stanno dicendo che qualcosa sta cambiando (anzi è già cambiato, ndr).