H&M, la moda iniqua: 2,6 miliardi di profitti ma i salari sono da fame
Il marchio globale della moda si vanta dei progressi salariali. Ma un rapporto svela stipendi vergognosi per i lavoratori nelle fabbriche tessili
H&M, il colosso dell’abbigliamento low cost, torna in prima pagina per non aver rispettato gli impegni presi sul salario dignitoso. Anche se nella sua comunicazione continua a farsi bello delle promesse spese. La denuncia arriva come un gancio in pieno viso sferrato dalla Clean Clothes Campaign (CCC) verso la società svedese della moda a basso costo.
Un colpo che rientra nella campagna di pressione Turn Around, H&M! e si fa forte dei numeri estratti dalle buste paga, e delle voci di lavoratori impiegati dai fornitori principali (detti “gold” e “premium”) del gruppo. Operaie e operai tessili intervistati direttamente in quattro fabbriche attive in Bulgaria, Cambogia, India e Turchia. Ed è tutto pubblicato in un rapporto rilanciato in Italia da Campagna Abiti Puliti.
H&M smentita dalle paghe di oggi. Dati alla mano
L’accusa per H&M è semplice e diretta: «uno dei più grandi rivenditori al mondo, con profitti per 2,6 miliardi di dollari, ha una catena di fornitura con lavoratori costretti a ore eccessive di lavoro per pura sopravvivenza».
La situazione appare tanto più inaccettabile dal momento che la compagnia nel 2013 aveva pubblicato la Roadmap towards a fair living wage in the textile industry (ovvero la rotta verso il giusto salario nell’industria tessile). Il piano di azione «conteneva un obiettivo specifico: 850mila lavoratori tessili avrebbero percepito un salario dignitoso entro il 2018. Un impegno che, dopo aver portato molta attenzione mediatica all’azienda, è presto scomparso dalla comunicazione del gruppo, così come i documenti originali sono spariti dal suo sito. La comunicazione corporate di H&M adesso fa riferimento all’introduzione del “metodo per un salario equo” nelle fabbriche fornitrici. Gli 850mila lavoratori e i loro redditi attuali non fanno più parte del discorso».
Ma la distanza tra i buoni propositi diffusi attraverso i comunicati stampa e la realtà dei fatti è stata denunciata il 24 settembre dall’ultimo report della Campagna Abiti Puliti (H&M: Le promesse non bastano, I salari restano di povertà). L’indagine ha riguardato proprio quattro fornitori strategici della griffe di moda, che quindi avrebbero dovuto essere interessati dalle politiche sbandierate nel 2013. E che è stata accompagnata da un riassunto delle puntate precedenti.
Dati alla mano, ottenuti da CCC esaminando le buste paga e parlando con i dipendenti, si evincono informazioni sconcertanti:
i lavoratori «guadagnano in India e Turchia un terzo della soglia stimata di salario dignitoso. In Cambogia, meno della metà. In Bulgaria, lo stipendio dei lavoratori intervistati presso un “fornitore d’oro” di H&M non arriva nemmeno al 10% di quello che necessiterebbero per avere vite dignitose».
Il blitz mediatico preventivo di H&M
Numeri che, uniti al racconto sulle condizioni generali di lavoro, anch’esse descritte nell’indagine, restituiscono un quadro ben poco lusinghiero per la multinazionale dell’abbigliamento. Tanto da indurre la compagnia a produrre una sorta di controffensiva mediatica preventiva. Un’azione messa in campo avendo già in mano il documento di CCC, scattata strategicamente quattro giorni prima del suo lancio internazionale. La classica excusatio non petita.
H&M ha infatti pubblicato un comunicato in cui vanta i progressi in termini di sistemi salariali, rappresentanza sindacale e condizioni di lavoro. Risultati accompagnati da grandi numeri (930mila lavoratori, 655 fabbriche), ma senza dettagli utili a poterne verificare la fondatezza. Valori ha ovviamente chiesto informazioni specifiche all’azienda. Ma per ora nessuna risposta è arrivata.
Lucchetti: in fabbrica paura di parlare e svenimenti
Fumo negli occhi dei media e dei consumatori. Il più tipico dei greenwashing, secondo Deborah Lucchetti, coordinatrice di Campagna Abiti Puliti, che offre la sua lettura dell’episodio.
«Noi, come facciamo sempre, per correttezza, prima della pubblicazione abbiamo fornito i nostri dati alla compagnia, in modo che potesse commentare o contestare le rilevazioni. Cosa che non è avvenuta. Invece, H&M ha pubblicato un comunicato altisonante. Un modo per tutelarsi rispetto all’immagine che della compagnia sarebbe uscita dalla nostra indagine. Noi portiamo dei fatti che contraddicono le loro informazioni. Loro non forniscono dettagli che permettano una verifica di ciò che dicono».
Senza contare «la paura di parlare che abbiamo trovato nelle fabbriche. In fornitori strategici, gli stabilimenti più avanzati, le punte di diamante della filiera di H&M, dove quindi il gruppo dovrebbe investire il massimo del proprio sforzo di miglioramento. Non solo salari mancati, ma paura, repressione sindacale, insicurezza sul lavoro, svenimenti, livelli di straordinario molto importanti, soprattutto in Bulgaria.
È naturale che, attraverso il campione di fabbriche analizzato, non possiamo dire che in tutte le fabbriche di H&M la situazione sia questa.
La domanda allora è: quante altre fabbriche sono in queste condizioni? E quali sarebbero invece le fabbriche che hanno beneficiato dei miglioramenti annunciati da H&M?
Se ci dicono quali sono, con nomi e cognomi, e ci forniscono le buste paga, i contatti con i gruppi sindacali locali, verificheremo».