La lunga notte di Deutsche Bank
La nomina del Ceo Christian Sewing non riduce l’incertezza sul futuro dell’istituto tedesco. Tra conti in rosso e una montagna di derivati opachi
Bilancio in perdita per il terzo anno consecutivo, titolo penalizzato in borsa, l’incognita dei derivati e degli asset illiquidi. E poi i costi crescenti che incidono sulle prospettive di rilancio certificando il peso di scelte sbagliate. C’è di tutto e di tutto in po’ nel tourbillon contabile ed emotivo che scuote da tempo Deutsche Bank, colosso in crisi di rendimento e forse anche di identità.
Il cambio al vertice dell’8 aprile non ha convinto Standard & Poor’s che giovedì ha ufficialmente messo sotto osservazione l’istituto non escludendo un possibile downgrade. L’insediamento del neo amministratore delegato Christian Sewing al posto dell’inglese John Cryan, sostiene infatti l’agenzia di rating, potrebbe aprire la strada a “un modello di business più solido e sostenibile” ma anche a “un incremento degli sforzi di ristrutturazione”. Un’iniziativa che si annuncia più difficile del previsto.
Costi eccessivi, conti in rosso
Ci vorrà tempo per ripristinare i profitti del passato, aveva scritto pochi giorni prima l’Economist. Non bastasse il trend negativo del settore obbligazionario (meno 29% sui ricavi dell’ultimo anno) a pesare sui conti è anche la zavorra dei costi complessivi (che equivalgono al 93% delle entrate) e delle retribuzioni in particolare. L’anno scorso, ricorda il settimanale britannico, il management ha rinunciato ai bonus ma l’ammontare degli stipendi degli altri dipendenti è aumentato di 2 miliardi. Più Germania e meno speculazione, sembrano ripetere come un mantra gli stessi stakeholder che hanno applaudito all’allontanamento del mai amato Cryan. Ma una ritirata strategica potrebbe non essere sufficiente a risollevare le sorti di una banca troppo grande per il mercato tedesco – dove tassi al minimo e forte concorrenza spingono al ribasso i margini di profitto – e troppo poco competitiva – come evidenziano gli scarsi rendimenti registrati – per il mercato americano e per quello asiatico. Un vicolo cieco, insomma.
-25% da inizio anno
Il mercato, nel frattempo, continua a reagire male. Dall’inizio dell’anno il titolo DB ha perso circa un quarto del proprio valore e viaggia ora sotto quota 12 euro, un prezzo inferiore a quello rilevato nel pieno della tempesta post Lehman, annus horribilis 2009. Lunedì scorso, inoltre, si è aperto a Londra un nuovo processo sullo scandalo Euribor, il tasso interbancario di Eurolandia: Deutsche Bank, sul banco degli imputati insieme a Barclays, deve rispondere di manipolazione, lo stesso reato che le era stato contestato in passato sul fronte del Libor e che si sarebbe tradotto, dopo il patteggiamento, in una multa da quasi 2 miliardi di dollari con la Federal Housing Finance Agency statunitense. Dallo scoppio della crisi ad oggi, le sanzioni comminate dalle autorità USA sono costate alla banca tedesca 12,4 miliardi di dollari.
Titoli rischiosi
Ma la vera eredità con cui occorrerà presto o tardi confrontarsi consiste soprattutto nei prodotti stessi delle operazioni finanziarie più complesse. Il nozionale dei derivati a bilancio alla fine del 2017 segna infatti l’astronomica cifra di 48,3 trilioni di euro (5,4 in più rispetto al 2016) che, al netto delle compensazioni tra i singoli contratti, produce un saldo finale di 20,2 miliardi. L’analisi del rischio si concentra su quest’ultimo dato ma la stima delle perdite potenziali – in caso di contingenze negative sul mercato – appare incerta dal momento che i titoli derivati sono tipicamente difficili da prezzare.
Le ombre degli attivi di livello 3
Il problema interessa anche i cosiddetti asset illiquidi, i famosi attivi di livello 3 che non avendo un chiaro mercato di riferimento, ammette la stessa banca, sono soggetti a metodi di valutazione complessi e per loro natura opinabili. Nel dubbio, meglio averne pochi. Ma non è il caso di DB. Gli asset di terzo livello a bilancio sono stimati in 22 miliardi di euro, il dato più alto tra le maggiori banche europee. La cifra equivale al 45% circa del patrimonio principale (common equity tier 1 capital), una quota tuttora superiore, con ogni probabilità, alla media dei principali istituti del Pianeta stimata nel 2016 al 38% e oggi presumibilmente più bassa a fronte dei noti sforzi di smaltimento dei titoli condotti da questi ultimi.