La sentenza che definisce illegale l’occupazione della Palestina
Il parere della Corte delle Nazioni Unite chiede a Israele di fermare l'occupazione della Palestina e tornare ai confini del 1967
I mezzi di informazione, con poche eccezioni, hanno dato poco spazio al parere consultivo sulle conseguenze legali dell’occupazione israeliana della Palestina, compresa Gerusalemme Est, emesso dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) lo scorso 19 luglio. Peccato, perché si tratta di un documento molto importante, che prende in considerazione il susseguirsi degli eventi dall’Impero ottomano ai giorni nostri. E lo fa da un punto di vista giuridico, e non politico o di parte.
Il parere della CIG, richiesto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con una risoluzione approvata il 30 dicembre del 2022, è frutto di un’indagine fondata sul diritto internazionale. Sulle risoluzioni del Consiglio di sicurezza e della stessa Assemblea generale. Ossia, sui massimi organi internazionali e sugli strumenti, approvati dagli Stati membri, che debbono regolare i rapporti tra nazioni. Per evitare che si ripetano i crimini, le violazioni e le guerre.
Non cogliere l’importanza e la rilevanza di questi organismi e dei loro strumenti è un’occasione persa per informare. Per aiutare l’opinione pubblica a comprendere la complessità di ciò che accade da oltre un secolo in Medio Oriente. Per mettere davanti alle loro responsabilità il nostro governo e quelli dell’Unione Europea, in quanto membri delle Nazioni Unite.
Il diritto di Israele ad esistere, ma l’obbligo di rientrare nei propri confini
Quello della Corte Internazionale di Giustizia è un parere non vincolante, e non prevede procedure o azioni. Ma consegna all’Assemblea generale della Nazioni Unite e agli Stati membri il dovere morale di intraprendere, con urgenza, tutte le azioni necessarie a ristabilire il rispetto del diritto internazionale. E, non ultimo, al governo israeliano di rientrare nei confini internazionalmente riconosciuti e di fermare le politiche di insediamento in Palestina.
Inoltre, chiede di consentire quindi il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese, non sulla base di prese di posizione politiche, ma sulla base di quanto definito, ancora una volta, dal diritto internazionale. Tutto ciò riconoscendo pienamente lo Stato d’Israele, anzi richiamandolo proprio ai suoi doveri, in quanto membro delle Nazioni Unite. Tale impostazione, giuridica e non politica, è la forza e la potenza di questo documento.
La risoluzione che affida l’incarico alla CIG recita testualmente di tener conto esclusivamente «delle norme e dei principi del diritto internazionale, compresi la Carta delle Nazioni Unite, il diritto internazionale umanitario, il diritto internazionale dei diritti umani, le risoluzioni pertinenti del Consiglio di sicurezza, dell’Assemblea generale e del Consiglio dei diritti umani, e il parere consultivo della Corte del 9 luglio 2004 (relativo al Muro di separazione, ndr)».
Una risoluzione che è giuridica, e non politica
Due sono infatti i quesiti posti, precisi e circostanziati. Il primo indica: «Quali sono le conseguenze legali derivanti dalla continua violazione da parte di Israele del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, dalla sua prolungata occupazione, insediamento e annessione del territorio palestinese occupato dal 1967, comprese le misure volte ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status della Città Santa di Gerusalemme, e dall’adozione di leggi e misure discriminatorie correlate?».
Il secondo quesito invece recita: «In che modo le politiche e le pratiche di Israele influiscono sullo status giuridico dell’occupazione e quali sono le conseguenze giuridiche che ne derivano per tutti gli Stati e le Nazioni Unite?»
Da tali domande appare evidente quanto sia chiaro e netto lo status giuridico di riferimento, fondato sul diritto internazionale e sulle risoluzioni del Consiglio di sicurezza e dell’Assemblea generale. Israele è riconosciuto come entità statale, ma entro confini definiti. Ovvero la ben nota “linea verde” conseguente all’armistizio della guerra del 1948. Superare quella linea esercitando potere e controllo civile e militare è chiaramente e semplicemente una violazione del diritto internazionale. Dà vita all’occupazione e di fatto nega il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese. Con tutto ciò che ne discende in termini di altre violazioni dei diritti umani, politici, civili, economici, culturali e di discriminazione.
Una strada concreta per una pace giusta esiste
La lettura del documento aiuta quindi a dipanare una matassa ingarbugliata dagli eventi storici. Ma anche, e molto, dalle negligenze e dalle continue violazioni del diritto. Con pazienza, e con la dovuta responsabilità di leggere e di studiare i documenti, la questione rimane complessa da risolvere. Ma il contesto si chiarisce e la strada che porta alla pace giusta prende consistenza. Esiste.
La palla torna quindi nella metà campo della politica. Il parere della CIG rimette nelle mani degli organi delle Nazioni Unite e degli Stati membri il che fare. Per fare in mondo che sia ripristinato il diritto, che si ripari ai danni generati e che non si ripetano più violazioni e ingiustizie.
In altre parole, occorre che gli Stati membri assumano le responsabilità derivanti dall’essere parte di una comunità internazionale. Una comunità che ha deciso di dar vita, dopo le atrocità delle due guerre mondiali del Novecento, ad un sistema di regole che va oltre i singoli interessi nazionali. Per difendere e garantire la sicurezza a tutti gli Stati ed a tutte le popolazioni, prevenendo ed evitando il sorgere di nuove guerre.
Non più con la politica à la carte, dove il diritto e le convenzioni internazionali sono rispettate in base ai propri interessi nazionali ed alleanza. Ma l’esatto contrario. Una politica fondata sul diritto internazionale per difendere la propria sicurezza e costruire accesso ai diritti umani in una dimensione universale. Senza più discriminazioni e diseguaglianze insopportabili.
Il diritto ai confini è riconosciuto a entrambe le parti
Si potrebbe dire: niente di nuovo, è un’ovvietà, non corrisponde alla realtà. Il problema infatti è proprio la realtà che deve essere cambiata, e non il diritto internazionale. La prima determina guerre, ingiustizie e distruzioni. Mentre il sistema del diritto internazionale è stato creato dagli stessi Paesi che lo violano sistematicamente proprio per evitare che una realtà governata da interessi di parte, parziali, egemonici possa determinare il ripetersi delle tragedie dei secoli scorsi. Sono gli Stati membri che debbono dare forza ed efficacia al diritto internazionale con la propria azione politica, diplomatica, economica, di cooperazione.
Nel caso specifico della questione Palestina, i Paesi membri delle Nazioni Unite non possono continuare a permettere al governo e al parlamento israeliano di proseguire nella politica di occupazione. Fatto di insediamenti e espropriazioni di case e terreni, di mutamenti demografici a discapito della popolazione palestinese e del suo diritto di autodeterminazione. Fino a votare il rifiuto all’esistenza dello Stato di Palestina portando come giustificazione la sicurezza e l’esistenza stessa d’Israele. Per non parlare dell’accusa di antisemitismo a chi richiede il rispetto del diritto internazionale.
Il documento della CIG ci aiuta proprio a capire come siano importanti gli approcci e i riferimenti giuridici, per comprendere diritti e doveri e quindi come agire. Un primo esempio è dato dal riconoscimento del diritto di esistere di Israele e dai suoi confini riconosciuti internazionalmente. Un diritto che determina il dovere di rispettare tali confini. Da cui risulta come l’occupazione della Palestina è da considerarsi una chiara e netta illegalità che produce conseguenze e violazioni sul piano giuridico e nei confronti dei diritti del popolo palestinese.
Il dovere di Israele a porre fine all’occupazione
Il parere riportato nel documento finale è il seguente: «La Corte ha stabilito in precedenza che le politiche e le pratiche israeliane e il modo in cui vengono attuate e applicate sul campo hanno effetti significativi sullo status giuridico dell’occupazione. Attraverso l’estensione della sovranità israeliana ad alcune parti del territorio occupato, la loro graduale annessione al territorio israeliano, l’esercizio delle funzioni governative israeliane e l’applicazione delle sue leggi nazionali in tali zone. Nonché attraverso il trasferimento di un numero crescente di cittadini israeliani in tali parti del territorio e l’impedimento dell’esercizio del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese».
«Di conseguenza – prosegue il testo – queste politiche e pratiche hanno portato a cambiamenti nel carattere fisico, nello status giuridico, nella composizione demografica e nell’integrità territoriale dei Territori palestinesi occupati, in particolare della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. Questi cambiamenti manifestano l’intenzione di creare una presenza israeliana permanente e irreversibile nei Territori palestinesi occupati.»
Quindi il parere richiama direttamente Israele a porre fine all’occupazione: «Per quanto riguarda la constatazione della Corte che la continua presenza di Israele nei Territori palestinesi occupati è illegale, la Corte ritiene che tale presenza costituisca un atto illecito che comporta la sua responsabilità internazionale. Si tratta di un atto illecito di carattere continuativo che è stato causato dalle violazioni da parte di Israele. Attraverso le sue politiche e pratiche, del divieto di acquisizione del territorio con la forza e del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Di conseguenza, Israele ha l’obbligo di porre fine alla sua presenza nei Territori palestinesi occupati il più rapidamente possibile.»
E il dovere di Israele di riparare, restituire e risarcire
Sempre la Corte Internazionale di Giustizia scrive, facendo riferimento a Israele: «Deve cessare immediatamente ogni nuova attività di insediamento. Israele ha anche l’obbligo di abrogare tutte le leggi e le misure che creano o mantengono la situazione illegale, comprese quelle che discriminano il popolo palestinese nei Territori palestinesi occupati. Così come tutte le misure volte a modificare la composizione demografica di qualsiasi parte del territorio». Tel Aviv, poi, «ha l’obbligo di fornire una piena riparazione per i danni causati dai suoi atti illeciti a livello internazionale a tutte le persone fisiche o giuridiche interessate».
La Corte ricorda poi che il principio essenziale è legato al fatto che la riparazione deve, per quanto possibile, cancellare tutte le conseguenze dell’atto illegale. E ristabilire la situazione che, con ogni probabilità, sarebbe esistita se tale atto non fosse stato commesso».
«La restituzione comprende l’obbligo di Israele di restituire la terra e gli altri beni immobili, nonché tutti i beni sequestrati a qualsiasi persona fisica o giuridica dall’inizio dell’occupazione nel 1967. E tutti i beni e le proprietà culturali sottratti ai palestinesi e alle istituzioni palestinesi, compresi gli archivi e i documenti. Richiede inoltre l’evacuazione di tutti i coloni dagli insediamenti esistenti e lo smantellamento delle parti del muro costruite da Israele che si trovano nei Territori palestinesi occupati, oltre a permettere a tutti i palestinesi sfollati durante l’occupazione di tornare al loro luogo di residenza originario».
«Nel caso in cui tale restituzione dovesse rivelarsi materialmente impossibile, Israele ha l’obbligo di risarcire, in conformità alle norme applicabili del diritto internazionale, tutte le persone fisiche o giuridiche e le popolazioni, ove ciò sia il caso, che abbiano subito una qualsiasi forma di danno materiale a causa degli atti illeciti di Israele durante l’occupazione».
Il dovere degli Stati membri dell’Onu di intervenire
La Corte chiama in causa anche gli Stati membri delle Nazioni Unite. Spetta anche a loro cooperare e collaborare affinché sia rispettato il diritto internazionale: «La Corte osserva che le violazioni di Israele includono alcuni obblighi erga omnes ». Tra i quali quello «di rispettare il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e quello derivante dal divieto dell’uso della forza per l’acquisizione di territorio. Nonché alcuni dei suoi obblighi derivanti dal diritto internazionale umanitario e dal diritto internazionale dei diritti umani».
La Corte ritiene poi che, «mentre spetta all’Assemblea generale e al Consiglio di Sicurezza pronunciarsi sulle modalità necessarie per garantire la fine della presenza illegale di Israele nei Territori palestinesi occupati e la piena realizzazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, tutti gli Stati devono cooperare con le Nazioni Unite per mettere in atto tali modalità. Come ricordato nella Dichiarazione sui principi di diritto internazionale relativi alle relazioni amichevoli e alla cooperazione tra gli Stati, in conformità con la Carta delle Nazioni Unite».
Per questo, «ogni Stato ha il dovere di promuovere, con azioni congiunte e separate, la realizzazione del principio dell’uguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli, in conformità con le disposizioni della Carta. E di fornire assistenza alle Nazioni Unite nell’esercizio delle responsabilità ad esse affidate dalla Carta per quanto riguarda l’attuazione del principio», come recita la risoluzione 2625 (XXV) dell’Assemblea Generale.
L’illegalità dell’occupazione di Gerusalemme già indicata da diverse risoluzioni
Per quanto riguarda il divieto di acquisizione del territorio con la forza, la Corte osserva che il Consiglio di Sicurezza ha dichiarato in diverse occasioni, in relazione ai Territori palestinesi occupati, l’inammissibilità dell’acquisizione del territorio con la forza. E ha stabilito che «tutte le misure adottate da Israele per modificare il carattere fisico, la composizione demografica, la struttura istituzionale o lo status dei territori palestinesi e degli altri territori arabi occupati dal 1967, compresa Gerusalemme, o di qualsiasi parte di essi, non hanno alcuna validità giuridica», come da risoluzione del Consiglio di sicurezza 465 del 1980.
Inoltre, il Consiglio di Sicurezza nella risoluzione 2334 (2016) ha ribadito che non riconoscerà alcuna modifica alle linee del 4 giugno 1967, anche per quanto riguarda Gerusalemme, che non sia stata concordata dalle parti attraverso i negoziati. E ha invitato tutti gli Stati a distinguere, nei loro rapporti pertinenti, tra il territorio dello Stato di Israele e i territori occupati dal 1967.
Il ritorno di Israele ai confini del 1967
Su questo punto, la Corte ricorda e riprende quanto già deliberato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, chiedendo:
- (a) «Di non riconoscere alcuna modifica ai confini precedenti al 1967, anche per quanto riguarda Gerusalemme, che non sia stata concordata dalle parti attraverso i negoziati, anche garantendo che gli accordi con Israele non implichino il riconoscimento della sovranità israeliana sui territori occupati da Israele nel 1967»
- (b) «Di distinguere, nei loro rapporti pertinenti, tra il territorio dello Stato di Israele e i territori occupati dal 1967»
- (c) «Di non fornire aiuto o assistenza alle attività di insediamento illegali, incluso non fornire a Israele alcuna assistenza da utilizzare specificamente in relazione agli insediamenti nei territori occupati, in linea con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza 465 (1980) del 1° marzo 1980»
- (d) «Di rispettare e assicurare il rispetto del diritto internazionale, in tutte le circostanze, anche attraverso misure di responsabilità, coerenti con il diritto internazionale (risoluzione 74/11 (2019)).
E ricorda ancora agli Stati membri i loro obblighi: «Hanno anche l’obbligo di non fornire aiuto o assistenza per mantenere la situazione creata dalla presenza illegale di Israele nei Territori palestinesi occupati. Spetta a tutti gli Stati, nel rispetto della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, assicurare che ogni impedimento derivante dalla presenza illegale di Israele nei Territori palestinesi occupati all’esercizio del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese sia portato a termine. Inoltre, tutti gli Stati parti della Quarta Convenzione di Ginevra hanno l’obbligo, nel rispetto della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, di assicurare il rispetto da parte di Israele del diritto umanitario internazionale, così come incarnato in tale Convenzione».
E i doveri al riguardo delle stesse Nazioni Unite
Il parere termina con le responsabilità ed obblighi che ricadono sulle stesse Nazioni Unite: «Infine, la Corte ritiene che le modalità precise per porre fine alla presenza illegale di Israele nei Territori palestinesi occupati siano una questione che deve essere affrontata dall’Assemblea Generale, che ha richiesto questo parere, e dal Consiglio di Sicurezza. Pertanto, spetta all’Assemblea Generale e al Consiglio valutare quali ulteriori azioni siano necessarie per porre fine alla presenza illegale di Israele, tenendo conto del presente parere consultivo».
Infatti, «la Corte ritiene importante sottolineare, come ha fatto nel parere consultivo sul Muro, l’urgente necessità per le Nazioni Unite nel loro complesso di raddoppiare gli sforzi per portare il conflitto israelo-palestinese, che continua a rappresentare una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale, a una rapida conclusione. Stabilendo così una pace giusta e duratura nella regione.»
«La Corte ritiene inoltre che la realizzazione del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione, compreso il suo diritto a uno Stato indipendente e sovrano, che viva fianco a fianco in pace con lo Stato di Israele all’interno di confini sicuri e riconosciuti per entrambi gli Stati, come previsto dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale, contribuirebbe alla stabilità regionale e alla sicurezza di tutti gli Stati del Medio Oriente.»
Una pace giusta deve partire da queste premesse
Queste sono posizioni e richieste che da anni porta aventi il movimento per la pace, di cui la Cgil è parte attiva. E si fondano sull’impianto del sistema del diritto internazionale, sulle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sull’unico accordo tra le parti: l’Accordo di Oslo del 1993. In quanto questa è l’unica strada alternativa percorribile che si possa contrapporre alla politica de facto, alla realpolitik, alla forza delle armi e all’uso della violenza, da qualsiasi parte essa venga.
I fatti del 7 ottobre ed il ripetersi delle guerre a Gaza, degli scontri sempre più violenti in Cisgiordania e a Gerusalemme tra le organizzazioni radicalizzate dei coloni ebrei e palestinesi sono il risultato di un processo storico che viene da lontano. Un processo cosparso di permanenti e studiate violazioni del diritto internazionale per perseguire obiettivi inaccettabili come la conquista della Palestina intera per un solo popolo, sia esso quello ebraico o quello palestinese. Con la complicità della comunità internazionale che non si è fatta carico delle proprie responsabilità.
La pace giusta deve avere come architrave il riconoscimento da entrambe le parti che esistono due ragioni, che devono convivere. E la cassetta degli attrezzi per costruire la convivenza è data dal diritto internazionale e, come hanno detto insieme israeliani e palestinesi a Tel Aviv nella grande manifestazione del 1 luglio scorso: Time Is Now !. Il tempo è ora, per dire basta all’uso della violenza e delle armi, e riprendere la strada della legalità, della giustizia e della pace .