Paga dei CEO: disparità peggiore di quanto si creda. E l’opposizione cresce
Le aziende Usa "truccano" gli stipendi dei CEO per celare la disparità rispetto agli altri dipendenti. In varie città spuntano tasse per le imprese inique
Se vi sembra inaccettabile che la paga di un amministratore delegato sia 2500 volte più alta di quella mediana di tutti i suoi colleghi, proseguite. Scoprirete che la disparità può essere ben peggiore.
Stiamo parlando della CEO pay ratio, un rapporto interno tra le retribuzioni dei lavoratori delle grandi compagnie USA quotate. Un rapporto che dovrebbe dare indicazioni di equità, o meno. Alla politica e agli investitori. Ma poiché le componenti delle retribuzioni dei megadirigenti sono molteplici e articolate, il metodo di rilevazione lascia alle imprese margini di ambiguità tutt’altro che irrilevanti. E questa opacità si accompagna alle disuguaglianze crescenti.
Tanto che dal 1978 al 2016 si stima che il compenso degli amministratori delegati delle aziende di S&P500 sia aumentato del 937%, mentre gli stipendi reali dei lavoratori statunitensi dell’11%. Uno studio AFL-CIO valuta inoltre che nel 2016 i compensi di questi dirigenti fossero 347 volte superiori alla mediana dei dipendenti delle loro compagnie.
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La paga cresce e la disparità esplode
Comunicato per obbligo di legge (Dodd-Frank Act) da quest’anno alla SEC, l’organo di controllo della borsa americana, il calcolo delle retribuzioni d’oro spesso “dimentica” tuttavia di considerare alcuni aspetti. Aspetti che – guarda caso – peserebbero a favore dei supermanager strapagati.
Ralph Nader (avvocato e attivista) e Steven Clifford (già CEO di grandi compagnie) hanno perciò deciso di fare i conti per bene in un approfondimento pubblicato da «USA Today».
Si viene così a sapere che Kevin P. Clark, CEO della semi-sconosciuta Aptiv, additato al pubblico ludibrio per una immorale pay ratio di 2526 a 1, riesce a fare molto meglio di così. Aggiungendo ai compensi dichiarati (appena 13,8 milioni di dollari l’anno) altri 17,6 e passa milioni di dollari che racimola grazie alle stock options della compagnia, la pay ratio che lo riguarda passa a 5.760 a 1. Un cambio di proporzioni decisamente esorbitante, che non costituisce tuttavia un caso unico.
Lo stesso giochino si può fare con la retribuzione del CEO di Manpower, Jonas Prizing. La sua paga ufficialmente si ferma a 11,9 milioni di dollari. Ma se ci aggiungessimo gli 11.2 milioni di dollari di guadagni derivanti dall’esercizio di stock options e dalla maturazione dei profitti sulle sue azioni vincolate? Allora la pay ratio da un già disturbante 2483 a 1 salirebbe a 4882 a 1. Mentre per Mohammad Abu-Ghazaleh di Del Monte da 1465 a 2239 a 1.
La retribuzione mediana è il punto esatto in cui metà dei lavoratori di una società guadagna di più, e metà guadagna di meno.
Colleghi insoddisfatti, azionisti critici
La pubblicazione della paga dei CEO e della pay ratio ha però cominciato a produrre non solo indignazione, ma conseguenze. E Timothy Sloan, amministratore delegato di Wells Fargo, società di servizi finanziari multata anche di recente per comportamento scorretto, è tra i primi a subirne gli effetti.
Con una retribuzione da 17,6 milioni di dollari nel 2017 (291 volte di più della mediana annua dell’azienda), Sloan ha innanzitutto dovuto leggere le lamentele di alcuni colleghi che criticavano i dettagli del suo compenso su un sito Web di comunicazioni interne della compagnia (fonte Reuters).
Nel frattempo il Committee for Better Banks (letteralmente: Comitato per banche migliori) ha invitato Wells Fargo ad aumentare il salario orario minimo del 33%, a 20 dollari. Non solo. Sebbene di azionariato critico non si possa parlare, la questione del compenso dei dirigenti è stata dibattuta dagli azionisti in assemblea in Iowa lo scorso aprile, sollevando proteste per il secondo anno consecutivo.
Tasse locali in arrivo contro l’iniquità
Reazioni negative dall’interno, quindi. Ma anche all’esterno le acque iniziano ad agitarsi. A partire dall’Oregon e dalla tassa adottatata nella città di Portland che, per la prima volta, prende di mira direttamente ed esplicitamente l’ineguaglianza economica. Come? Con una sovrattassa del 10% all’imposta sulle imprese se il compenso dei dirigenti supera di 100 volte la mediana di tutti i lavoratori. E del 20% se il divario oltrepassa le 250 volte. L’iniziativa, secondo Fortune, non potrà portare più di 2,5-3,5 milioni di dollari l’anno alla città, poiché molte di queste multinazionali fanno la maggior parte dei loro affari fuori dalla giurisdizione municipale. Ma è un segno tangibile. E e non è l’unico.
I funzionari della città di San Francisco starebbero valutando una misura analoga in vista delle elezioni di novembre. E provvedimenti del genere sembra che interessino anche ad alcuni Stati americani: Minnesota, Rhode Island, Connecticut, Illinois e Massachusetts. Persino in California è quasi passata una legge al senato statale che prende in considerazione questo approccio.
In Rhode Island, in particolare, c’è in attesa al senato un disegno di legge che garantirebbe un trattamento preferenziale negli appalti pubblici alle società che pagano i loro amministratori delegati non più di 25 volte la retribuzione mediana dei loro dipendenti.
E persino sul fronte repubblicano qualcosa si è mosso. Anche se per ora a farne le spese sono stati i dirigenti delle imprese non-profit (specialmente grandi ospedali e università). La recente riforma fiscale del presidente Trump impone a quelli di loro che percepiscono più di 1 milione di dollari annuo un 21% di tasse. E c’è chi chiede che il provvedimento sia esteso alle società for-profit.
Forse non è in corso una vera rivoluzione moralizzatrice per la sostenibilità e l’equità del sistema economico. Ma questi germi di un nuovo fronte – anche di finanza etica – potrebbero dare frutti concreti nel prossimo futuro. Stay tuned!