Pietro Grasso: «La mafia è cambiata, ma non è più debole di quando ammazzarono don Pino Puglisi»
Intervista all’ex magistrato e senatore Pietro Grasso a trent’anni dall’omicidio di Pino Puglisi e da un’epoca in cui la mafia regnava
Don Pino Puglisi è uno di quelli uomini ai quali l’intera Italia dovrebbe dire «grazie». Prete in prima linea contro la mafia, fu assassinato il 15 settembre del 1993 da un commando mafioso, su mandato dei boss Filippo e Giuseppe Graviano. Aveva tentato di rivoluzionare – con le armi della legalità, del cambiamento e della sua missione evangelica – il quartiere di Brancaccio, a Palermo. Un feudo delle cosche, all’epoca.
Anche Pietro Grasso è uno di quegli uomini ai quali l’intera Italia dovrebbe dire «grazie». Nato a Licata nel 1945, ma di fatto palermitano, ha dedicato la sua intera vita alla lotta per la legalità, sacrificando tanto, mettendo a rischio la sua vita e quella dei suoi familiari. Dal 1969 nella magistratura, sarà sostituto procuratore per dodici anni. Nel 1980 sarà titolare dell’inchiesta sull’assassinio dell’allora presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella. Un’indagine complessa, difficile, e per la quale ancora oggi non si sono riusciti ad individuare i killer, mentre sono stati condannati i mandanti interni a Cosa nostra: una vicenda «che ancora mi toglie il sonno», racconterà Grasso presentando il volume “Piersanti Mattarella: da solo contro la mafia”.
Nel 1986 fu giudice a latere nel “maxiprocesso” contro la mafia: il più grande processo penale della storia d’Italia. Nel 1991 sarà chiamato da Giovanni Falcone al ministero della Giustizia: assieme faranno nascere gran parte dell’attuale legislazione antimafia tra cui la Procura nazionale antimafia, della quale lo stesso Grasso sarà a capo dal 2005, dopo essere stato Procuratore capo a Palermo dal 1999.
Nel 2012 lasciò la magistratura per dedicarsi alla politica. Sarà eletto senatore e presiederà la camera alta del Parlamento italiano. Pietro Grasso – che oggi è presidente della Fondazione Scintille di futuro sarà ospite di FestiValori, il festival di Valori.it che quest’anno si tiene dal 20 al 22 ottobre a Modena. Assieme al magistrato Giuseppe Lombardo e al consigliere d’amministrazione di Banca Etica Giacinto Palladino, parlerà di braccia finanziarie del crimine organizzato (a moderare sarà Rosita Rijtano, giornalista de La via libera).
Sono passati trent’anni dalla morte di don Pino Puglisi. Una vita. Era il 1993, l’anno dell’attacco al patrimonio artistico nazionale, che seguiva quello delle stragi di Capaci e via d’Amelio. E del progetto di attentato contro di lei. Che ricordo ha di quegli anni?
Ricordo un periodo che vorrei non tornasse più, terribile per la storia d’Italia. Le stragi di Falcone e Borsellino, prima. Poi gli attentati del 1993 a Roma, Firenze, Milano. La strage allo stadio Olimpico del gennaio 1994, mancata per un soffio. E in tutto questo anche il progetto di attentato contro di me, nel periodo in cui ci fu un contatto tra la mafia e il ROS dei carabinieri, tramite Vito Ciancimino. Un “dialogo” che però non dava i suoi frutti e quindi Totò Riina pensò fosse necessario un altro “colpetto”. Pensò potesse essere utile ammazzare un altro magistrato per convincere a portare avanti la trattativa. E pensarono a me, cominciando a progettare l’attacco già nel novembre 1992. Doveva essere a Monreale, dove mi recavo per andare a trovare con mia moglie mia suocera, gravemente ammalata. Ci furono però problemi con i telecomandi, perché la frequenza di un sistema d’allarme di una banca vicina poteva innescare lo scoppio in un momento non voluto. Ci volle un po’ prima che trovassero il telecomando giusto: lo andarono a prendere a Catania. Poi, in parte l’arresto di Riina, in parte la morte di mia suocera mi salvarono la vita. Infine, di colpo, tutto cessò, dopo le elezioni del marzo del 1994.
Fa un collegamento diretto tra quelle elezioni e la fine della strategia stragista della mafia?
Prendo atto dei fatti. Quando chiesi a un collaboratore di giustizia come Gaspare Spatuzza perché non si continuò con le stragi, mi fu risposto che una volta arrestati i fratelli Graviano non aveva avuto più alcuna indicazione di continuare. Poi nel 1995 si pensò a riavviare la strategia stragista, ma Spatuzza racconta di una riunione con i boss Giovanni Brusca e Matteo Messina Denaro, dopo l’arresto di Leoluca Bagarella, nel corso della quale si parlò anche della possibilità di riavviare la trattativa attraverso un atto eclatante, che doveva essere il sequestro di mio figlio, ma anche questo non si realizzò per l’arresto dei latitanti.
Padre Puglisi aveva tentato di restituire dignità al quartiere di Brancaccio, nel quale non c’erano teatri, cinema, servizi per i giovani. Chiedeva una scuola media, un centro socio-sanitario. Oggi a Brancaccio, e negli altri quartieri-feudo della mafia, cosa è cambiato?
Oggi non ci sono più i Graviano. Puglisi viene ucciso per una serie di motivazioni che si erano create nel quartiere. Le faccio un esempio. Padre Puglisi, insieme all’associazione intercondominiale di via Hazon, voleva impedire che i Graviano partecipassero all’organizzazione della festa del patrono del quartiere, anche perché sapeva che i mafiosi utilizzavano quella scusa per estorcere denaro. Come segnale intimidatorio vennero incendiate contemporaneamente le porte di casa dei tre dirigenti dell’associazione. A quel punto Puglisi cominciò a indicare pubblicamente durante le sue omelie i Graviano come autori di questi fatti. Spatuzza ebbe addirittura l’incarico di invitare una zia di Graviano a non partecipare più alle funzioni religiose di Padre Puglisi.
Vivendo nel quartiere, sapeva perfettamente chi comandava…
Non solo: Puglisi toglieva dalle strade di Brancaccio i ragazzi che venivano sfruttati dalla mafia come bacino di reclutamento di manovalanza. Al centro Padre Nostro si riunivano tanti giovani che altrimenti sarebbero finiti nelle mani delle cosche. Quel centro fu talmente frequentato che destò a un certo punto perfino dei sospetti. Era un periodo di guerra tra Stato e mafia e i boss temevano che lì dentro potessero essere stati infiltrati degli uomini della DIA e delle forze di polizia come punto di osservazione sul quartiere e catturare i latitanti. Un collaboratore di giustizia mi disse che era stato dato incarico ad un medico di controllare l’attività del centro sotto questo aspetto. Ma le indagini hanno accertato che in quel luogo voluto da Puglisi c’erano solo volontari e persone che lavoravano per il bene del quartiere.
Ci sono altri sacerdoti oggi che rischiano come Puglisi, Maurizio Patriciello in Campania, don Coluccia che hanno cercato di investire ad una marcia per la legalità a Tor Bella Monaca a Roma. Quanto è importante il loro lavoro?
È fondamentale. Va premesso che c’è stata una svolta nell’atteggiamento della chiesa cattolica nei confronti della mafia. Ricordo il cardinale Pappalardo all’epoca del generale Dalla Chiesa, o il discorso di Giovanni Paolo II che chiese ai mafiosi di convertirsi. Ci fu da allora una chiara presa di posizione. Quanto all’importanza dell’esempio di certi uomini, basti pensare che padre Puglisi ha colpito così tanto le coscienze che dopo la sua morte ha provocato una reazione di coscienza persino nei suoi due killer, che sono diventati in tempi diversi importantissimi collaboratori di giustizia. Spatuzza racconta come fosse già sul punto di pentirsi, poiché in preda ad una crisi di coscienza, ma fu nella Pasqua del 2008, quando gli fu distribuito un santino con una preghiera e l’immagine di padre Puglisi che mi fece chiamare chiedendo di vuotare il sacco. Ebbi il privilegio di raccogliere le prime dichiarazioni, che permisero tra le altre cose di scoprire l’enorme depistaggio sulla strage di via D’Amelio.
Non a caso qualcuno si precipitò a mettere in dubbio l’attendibilità di Spatuzza.
Andava a toccare troppi nervi scoperti. Fu osteggiato. Ci volle più di un anno perché potesse godere appieno del programma per i pentiti e per riuscirci fu necessario un ricorso al Tar. Su via D’Amelio, poi, si fece credere che volesse favorire qualcuno.
Quando capì che era sincero?
Mi fu chiaro che fosse l’autore del furto della Fiat 126 utilizzata poi come autobomba perché Spatuzza disse che fu necessario cambiare i freni di quella macchina, poiché non più funzionanti. Nonostante l’inferno che fu creato dall’esplosione, una perizia permise di verificare che era vero: i freni erano stati sostituiti da poco. Si capi perciò che il pentito raccontava fatti realmente accaduti.
C’è però ancora una quantità enorme di fatti insoluti, di circostanze poco chiare. In molti insistono su coinvolgimenti di apparati deviati dello Stato, a cominciare dai servizi segreti. I tentacoli della mafia in quegli anni fin dove erano arrivati?
Esistono delle intuizioni laceranti che possono emergere dall’analisi degli indizi. Ma ci vogliono prove inconfutabili per provarlo. E Riina e Provenzano ormai sono morti, portando i loro segreti nella tomba.
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Proprio Spatuzza fu nel commando che uccise Puglisi.
Sì, è a lui che Puglisi disse “me l’aspettavo”. Spatuzza racconta che inizialmente avevano tentato di farlo fuori investendolo con una macchina. Volevano sembrasse un incidente, ma non ci riuscirono. Quindi optarono per la simulazione di una rapina. Per questo Spatuzza gli sfilò il borsello, poi Salvatore Grigoli gli sparò alla nuca. E lo fece con una 765, non un’arma da killer di mafia. Si tentò in questo modo di non attribuire direttamente a Cosa nostra il delitto.
Tutti capirono subito, però.
Certo, ci fu una sorta di sollevazione del quartiere. Puglisi era molto amato. I Graviano sapevano che l’assassinio era attribuito a loro. E Spatuzza racconta che gli commissionarono di uccidere un ladro di auto (che tra l’altro aveva rubato la macchina a uno dei Graviano: una vendetta, in questo senso), di buttare il cadavere di fronte a casa Puglisi, e dargli fuoco. L’idea era di far finta di avere “giustiziato” il responsabile della morte del sacerdote. Spatuzza uccise davvero quel ladro, ma non riuscì mai a lasciare il cadavere di fronte all’abitazione di Puglisi, tale era il pellegrinaggio di fedeli che si recava lì per un saluto. Così lo lasciò in una macchina in una via adiacente, ma nessun collegò mai la presenza di quel morto al delitto Puglisi, finché non rivelò tutto Spatuzza stesso.
Resta il quadro inquietante di una mafia sostanzialmente indisturbata sul territorio.
Quello era un periodo in cui la mafia era estremamente presente, aggressiva e sicura di sé, godeva di una sensazione di impunità che oggi non ha più. Pensi che Puglisi aveva ottenuto dei contribuiti per restaurare la parrocchia e c’era una ditta che stava lavorando. In quel periodo fu chiesto a Spatuzza di estorcerle il pizzo, e siccome i soldi non arrivavano i Graviano fecero incendiare un furgone dell’azienda proprio davanti il cantiere. Quella delle estorsioni era un’attività a tappeto: tutti dovevano pagare. Pure chi aveva ottenuto il lavoro di ristrutturare la parrocchia.
La mafia oggi fa meno rumore: qual è la strategia delle cosche?
La mafia oggi non è più debole di allora. Ha solo cambiato strategia, e lo ha fatto perché ha visto qual è stata la reazione dello Stato. La strategia inaugurata da Provenzano è perciò quella della sommersione. Niente più allarme sociale, niente più bombe. Così la pressione delle forze dell’ordine sul territorio diminuisce e i quartieri vengon lasciati tranquilli. Se a Tor Bella Monaca o nelle periferie di Napoli accadono fatti eclatanti, tutti i traffici illeciti ne risentono. È, appunto, una strategia: la mafia si è adattata. Oggi è una mafia della droga, degli affari,degli appalti e della finanza.
La ‘ndrangheta in particolare, ma in generale le mafie utilizzano sempre più i canali finanziari. Ora, la finanza è in molti casi priva di regolamentazioni sufficientemente stringenti. Follow the money, il metodo di Falcone è sempre più la soluzione per ricostruire le maglie dei traffici illeciti?
Sì, ma la realtà è che è sempre più difficile trovarlo, il denaro. Se guardiamo ai fondi d’investimento, alle possibilità che i sistemi finanziari concedono per nascondere lecitamente i capitali, c’è davvero da preoccuparsi. E non serve neanche arrivare ai paradisi fiscali. È per questo che spesso è molto difficile ricostruire i flussi e, soprattutto, risalire all’origine dei fondi, il che è fondamentale per comprendere se essa sia o meno di natura illecita.
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Follow the money, perché il metodo-Falcone è ancora attuale
Giovanni Falcone capì che occorreva “seguire il denaro” per ricostruire i business mafiosi. Un metodo rivoluzionario, utilissimo anche oggi
Quali riforme sono necessarie a tuo avviso nel mondo della finanza?
Io stesso ho proposto dei cambiamenti, ma nel mondo della politica ci sono molte remore. La chiave è la trasparenza, in qualsiasi operazione finanziaria. Oggi l’unico modo è consentire di stabilire collegamenti tra banche dati, e vanno superate le paure che qualcuno avanza circa il fatto che alcune indagini possano essere orientate da motivi altri se non quelli legati alla necessità di colpire attività che danneggiano l’economia reale.
Il peso delle mafie sul sistema economico è infatti ancora enorme.
I capitali di origine illecita inquinano e danneggiano l’economia. Mettono in crisi il sistema nel suo complesso. Il problema è che se ti rubano il portafoglio te ne accorgi subito, se invece utilizzano strumenti finanziari per riciclare i soldi delle mafie non vedi nulla. Eppure è con i falsi in bilancio, con le bancarotte, con il riciclaggio, l’evasione fiscale e il sommerso che vengono sottratte più risorse alla collettività.