La criminalità colpisce anche la cooperazione sociale, che va difesa

Intervista a Antonio Vesco, coordinatore e responsabile scientifico del progetto di ricerca di LIES sui legami tra criminalità e Terzo settore

Barbara Setti
Anche la cooperazione sociale può essere contaminata dalla criminalità © Andrii Yalanskyi/iStockPhoto
Barbara Setti
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Nel 2020 il LIES, Laboratorio dell’inchiesta economica e sociale, ha contattato Fondazione Finanza Etica per proporre il sostegno a una ricerca sul rapporto tra cooperazione sociale e criminalità, con l’analisi di casi studio in Veneto e in Campania.

Il tema dell’intreccio tra criminalità organizzata, enti del Terzo Settore e finanza è una questione centrale da molto tempo. Tuttavia, uno degli elementi interessanti e connotativi di questa ricerca, realizzata insieme al dipartimento di Scienze Sociali dell’università Federico II di Napoli, al dipartimento di Culture, Politica e Società dell’università di Torino e al Centro di Documentazione e d’Inchiesta sulla criminalità organizzata in Veneto è il taglio socio-antropologico. Sia per quanto riguarda i metodi (l’etnografia e l’osservazione diretta) sia per quanto riguarda le chiavi interpretative e teoriche adottate. 

Ne parliamo con Antonio Vesco, coordinatore e responsabile scientifico del progetto di ricerca, insieme a Gianni Belloni.

Ci puoi spiegare le motivazioni che vi hanno portato a concentrare la vostra ricerca sul rapporto tra il fenomeno criminale – e non esclusivamente mafioso – e l’ambito del Terzo Settore?

Negli ultimi anni, questo rapporto è stato portato alla luce – e sovente enfatizzato – da alcuni casi giudiziari che hanno avuto una notevole eco mediatica. Su tutti, l’inchiesta “Mondo di mezzo” della Procura di Roma, poi battezzata dai media “Mafia Capitale”. Nonostante la notevole attenzione pubblica, fin qui la ricerca sociale si è interessata molto poco ai legami tra criminalità organizzata, corruzione ed economia sociale, oppure lo ha fatto “di striscio”, quando si è occupata delle più generali trasformazioni del terzo settore o dei problemi legati ad alcuni suoi specifici ambiti in cui poi si è manifestata anche la presenza di gruppi criminali, dalla gestione dei rifiuti alle diverse forme di assistenza.

Anche la nostra ricerca non è interessata alla criminalità in sé. Mira piuttosto a cogliere le fragilità di un mondo, quello della cooperazione sociale e dell’intero terzo settore, che negli ultimi decenni ha subìto profonde trasformazioni. Ci siamo chiesti allora quali caratteristiche dell’economia sociale possono favorire dinamiche illegali; quali varchi si sono aperti per l’operatività di gruppi criminali, mafiosi e non. Al tempo stesso, ci siamo posti un obiettivo delicato: quello di provare a individuare le dinamiche che contribuiscono alla criminalizzazione del non profit in una fase in cui alcuni suoi ambiti – come quello dell’accoglienza dei richiedenti asilo – producono un dibattito fortemente polarizzato. 

Qual è l’elemento caratterizzante del taglio socio-antropologico della vostra ricerca?

Il taglio socio-antropologico non riguarda in effetti soltanto le tecniche adottate o le fonti utilizzate: lo ritroviamo per lo più nello sguardo con cui abbiamo osservato questi fenomeni. I documenti che abbiamo analizzato, così come le persone che abbiamo incontrato e intervistato, non hanno rappresentato per noi semplici fonti di informazioni. Si tratta di fonti specifiche, che esprimono specifici punti di vista sul mondo. Tutti i nostri intervistati hanno un ruolo ben preciso nel mondo della cooperazione sociale e del terzo settore in genere, di questo dovevamo tenere conto. Inoltre, si è trattato di un lavoro che possiamo definire di ricerca-azione, attento al contributo e al parere delle persone che vivono e operano in questo settore.

Avete già presentato i dati alle realtà che avete coinvolto?

In occasione della restituzione dei primi risultati, presso la sede di Banca Etica a Padova, abbiamo coinvolto molte delle persone incontrate nel corso della ricerca. Ridiscutere insieme a loro i risultati ha avuto due principali funzioni, entrambe fondamentali per una ricera di questo tipo: in primo luogo, fornire loro conoscenze ulteriori sul loro stesso mondo e nuovi strumenti per l’azione. In secondo luogo, re-interrogare il nostro stesso sapere alla luce dei loro riscontri, così da tornare sui risultati acquisiti e metterli ancora una volta in discussione. È un dialogo in cui bisogna sempre tenere presente il proprio posizionamento e quello dei propri interlocutori: una caratteristica precipua della ricerca di taglio antropologico. Non consente di fornire risposte che si pretendono certe, ma favorisce una riflessione circostanziata e approfondita.

La vostra ricerca ha scelto due territori rilevanti, il Veneto e la Campania. Territori che hanno pratiche molto diverse di fare cooperazione sociale, ma anche modi diversi di manifestazione di criminalità organizzata. Cosa emerge dalla vostra ricerca? 

Per molti versi, la scelta di queste due aree per i nostri casi-studio dipende proprio dalle profonde differenze di contesto. Volevamo osservare da un lato le derive criminali di alcune realtà cooperative in questi due contesti; dall’altro le difficoltà incontrate da dirigenti e operatori di fronte a dinamiche che favoriscono queste derive. E abbiamo deciso di farlo in due aree significativamente diverse, perché diverse sono le storie e le tradizioni del volontariato e della cooperazione sociale in queste due regioni.

Ma sono diverse anche le conseguenti concezioni diffuse del sociale. È diverso il ruolo giocato dalla politica nella regolazione locale delle politiche sociali e nella loro concreta implementazione. È profondamente diverso, infine, il modo in cui il dibattito pubblico tende a concettualizzare le deviazioni illegali o criminali del sociale nelle due aree. Nel caso del Veneto ci si affida alla chiave di lettura dell’ipertrofica imprenditorialità locale, che colonizzerebbe anche l’economia sociale locale. Quando si guarda alla Campania, si fa invece più volentieri riferimento al fattore della commistione tra politica e camorra. Un intreccio considerato responsabile della degenerazione di alcuni circuiti cooperativi locali. La ricerca ci mostra che tutto questo è vero fino a un certo punto. 

Emergono solo differenze?

Vi sono anche elementi di continuità tra i due contesti che emergono dalle nostre analisi quantitative. Questi fattori ci hanno fornito risposte sui reati economici nel terzo settore e sulla relazione tra enti del terzo settore e sistema del credito. Uno di questi è la maggiore presenza di soggetti denunciati per reati economici gravi negli enti di relativamente grandi dimensioni, così come nelle cooperative di «successo». Un altro è la scarsità di reati direttamente riferibili a clan mafiosi, sostanzialmente non rilevati in Veneto e che perfino in Campania risultano svolgere un ruolo di mero supporto all’attività di politici e imprenditori sociali. Quest’ultimo dato smentisce l’idea diffusa secondo cui le mafie siano sempre al centro delle attività illegali/criminali. Anche in Campania, i soggetti che abbiamo raccontato sono spesso autosufficienti rispetto ai clan locali.

Sono dati che evidenziano una tendenza a livello nazionale?

Le due tendenze appena delineate credo possano essere riscontrate anche altrove. Sono invece certamente generalizzabili alcune analisi e alcune informazioni che abbiamo raccolto attraverso l’analisi qualitativa. Non parlo solo di fattori generali e ormai conclamati, come la chiara spoliticizzazione del Terzo settore e il crescente isomorfismo con dinamiche tipiche del mercato. O la perdita di una strategia che coincide anche con il cambiamento generazionale avvenuto nella dirigenza di molte cooperative. Penso anche a meccanismi molto concreti e ormai facilmente osservabili. 

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Le cooperative sociali sono fondamentali in numerosi settori. Ma anch’esse fanno girare denaro, e non sono esenti dal rischio di infiltrazioni della criminalità © Prostock-Studio/iStockPhoto

Ci può fare qualche esempio?

La perdita del legame con il territorio da parte di molte cooperative, causata dal sistema degli appalti, favorisce le realtà cooperative in grado di operare in territori diversi, senza tenere conto della loro capacità di costruire e sviluppare reti di relazioni con le altre realtà locali. Le soglie fissate dal codice degli appalti obbligano di fatto le piccole cooperative ad abbandonare la competizione, in favore di cooperative più strutturate che non hanno legami con il territorio.

In questo quadro, l’aumento delle soglie del subappalto apre potenziali varchi, su tutto il territorio nazionale, per l’ingresso di soggetti che si servono della cooperativa come di un semplice strumento per accedere ai lavori. Inoltre, in settori come quello dell’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, la costante emergenza che caratterizza la concreta gestione dei flussi crea le condizioni per l’affidamento dei lavori a cooperative in grado di reggere certi ritmi. Spesso a scapito dei regolamenti e della qualità del servizio svolto.

Nel caso che abbiamo approfondito in Veneto, la Prefettura di Venezia aveva stabilito un legame privilegiato con cooperative poi indagate per diversi reati, mentre rimanevano tagliate fuori diverse piccole realtà con una lunga tradizione di lavoro nel campo dell’accoglienza.

Un capitolo del vostro lavoro è incentrato sulla finanziarizzazione del terzo settore. 

Si analizza la finanziarizzazione del Terzo Settore e i suoi rapporti con il mondo bancario. Si parte dalla connessione del mondo della cooperazione sociale con il tessuto bancario territoriale ed emerge – e non è una sorpresa – un crescente distacco della pratica bancaria dalla conoscenza del territorio: sia in termini di numero di filiali, che di competenze legate al territorio, ma anche nel modo di fare banca. 

È un dato che vi aspettavate?

Non è una sorpresa, e lo è ancora meno per chi conosce bene il mondo delle banche. Nel nostro caso, questo dato ha chiare conseguenze sulla scelta di interlocutori diversi dalle banche (in alcuni casi per canali non legali), nonché di canali alternativi di finanziamento (anche questi non sempre legali).

La ricerca analizza una ampia messe di dati. Come è costituito il campione e su quali fonti vi siete basati?

Ci siamo serviti di strumenti di indagine e di analisi misti, ricorrendo a metodi quantitativi e qualitativi. La ricerca quantitativa si compone di due parti. In un primo momento, abbiamo tracciato un quadro generale del rapporto tra banche e imprese nelle due regioni, con un focus specifico sulle imprese del terzo settore grazie ai risultati dell’inchiesta campionaria Intesa Sanpaolo-Aiccon. In un secondo momento, ci siamo soffermati su un campione di circa 500 imprese estratte dal Registro unico nazionale del terzo settore (Runts) operanti in Campania e in Veneto.

Quest’ultima analisi beneficia di un processo di raccolta di dati forniti dal Comando provinciale della Guardia di Finanza di Napoli, raccolti attraverso l’interrogazione delle sue banche dati, su soggetti denunciati per gravi reati collegati a imprese operanti nel terzo settore.

E per quanto riguarda i due casi studio?

L’approfondimento dei casi studio in Veneto e in Campania ha invece seguito tecniche di indagine cosiddette qualitative, basate su fonti di diverso tipo. Una costante rassegna stampa ha consentito di monitorare le principali vicende in cui emergono casi di gestione illegale e/o criminale delle cooperative in diversi settori.

Quanto alle fonti giudiziarie e investigative, fornite dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, queste sono state un utile elemento per la ricostruzione dei casi giudiziari che abbiamo analizzato. Ordinanze, sentenze, informative, verbali di interrogatori e altri documenti processuali sono dati fondamentali per rintracciare casi rilevanti e accedere a informazioni utili per la ricerca. 

Sono sufficienti i dati delle agenzie di contrasto? Per le caratteristiche della vostra ricerca, avete anche fatto ricerca sul campo?

Una cautela ormai diffusa nella letteratura scientifica sui fenomeni di criminalità organizzata ci suggerisce di assumere queste fonti in chiave problematica. Va da sé, infatti, che le diverse agenzie di contrasto hanno obiettivi ben diversi da quelli della ricerca scientifica. Questi dati ci hanno certamente consentito di approfondire alcuni aspetti relativi all’agency dei gruppi criminali, ma naturalmente non sono sufficienti per inquadrare i contesti economici e sociali in cui questi hanno operato.

Per questo, sono necessari uno spoglio della letteratura disponibile e una vera e propria ricerca sul campo. Abbiamo rivolto alcune decine di interviste a magistrati, giornalisti, politici, cooperatori di lungo corso, lavoratori delle stesse cooperative coinvolte nelle inchieste giudiziarie. Interviste che ci hanno permesso di cogliere non soltanto i diversi punti di vista sui casi concreti di illegalità, ma anche sulle trasformazioni del mondo della cooperazione che rappresentano potenziali varchi per l’illegalità e la criminalità organizzata.

Anche le interviste hanno richiesto alcune cautele. I nostri interlocutori sono soggetti con una propria visione del loro stesso mondo. Oltre a fornirci informazioni fondamentali su meccanismi e processi della cooperazione sociale odierna, queste lunghe conversazioni ci hanno consentito di disegnare l’orizzonte simbolico in cui gli attori della cooperazione operano e nel quale si riconoscono – o hanno smesso di riconoscersi. 

Come pensate di divulgare e fare conoscere questi dati alle realtà interessate, sia del mondo imprenditoriale che bancario. Non temete il rischio di strumentalizzazioni? 

Le temiamo, e molto. Proprio per questo la ricerca si concentra sulla tensione tra presenza criminale e processi di criminalizzazione. O meglio, tra criminalità nel sociale e criminalizzazione del sociale. Accanto all’analisi delle pratiche criminali diffuse in questo mondo, abbiamo condotto una riflessione sul modo in cui il dibattito pubblico e mediatico influisce sulla percezione diffusa della cooperazione sociale.

I risultati sono già stati discussi con molte delle persone intervistate e variamente coinvolte nel percorso di ricerca e saranno divulgati innanzitutto attraverso la pubblicazione di un libro, che speriamo veda la luce nel 2023 e che presenteremo in contesti anche molto diversi tra loro. Il formato-libro consente un confronto denso con il pubblico e un certo grado di riflessività. Non si tratta semplicemente di raccontare i casi di criminalità che affliggono il mondo della cooperazione sociale, ma di discutere sui presupposti che li rendono possibili, nonché sulle semplificazioni del dibattito pubblico.

Le diverse presentazioni ci consentiranno, ci auguriamo, di comunicare in modo non semplificato i risultati di un’indagine complessa. Al tempo stesso, siamo certi che proseguirà il dialogo e il confronto con le realtà sociali e con gli addetti ai lavori incontrati nel corso della ricerca.