L’Europa riporta a casa le industrie, ma la sostenibilità è tutta da costruire
Riportare le industrie in Europa non è sempre sinonimo di sostenibilità e occupazione: il reshoring va accompagnato da politiche coerenti
Dimentichiamo il luogo comune per cui la produzione manifatturiera delle grandi aziende occidentali sia inevitabilmente altrove. Prima in Cina, poi in Vietnam, Bangladesh, Tunisia, Egitto – in ogni caso, a migliaia di chilometri di distanza. È vero: negli ultimi quattro decenni di globalizzazione si è assistito a una delocalizzazione sfrenata. Con tutti i problemi ambientali e sociali, talvolta drammatici, che ne conseguono. Ma negli anni più recenti si sta verificando anche il fenomeno opposto, con le industrie che ritornano in Europa.
Un trend che farà piacere a chi sbandiera la retorica dell’autonomia e della competitività. Ma, dietro agli slogan, resta una domanda aperta: questa nuova corsa alla produzione domestica può davvero creare valore per le persone e l’ambiente? Se n’è discusso alla 14ma edizione delle Settimane Sri dell’investimento sostenibile e responsabile, durante il webinar “Reindustrializzare l’Europa: tra competitività e sostenibilità”. Come sempre, a organizzare la rassegna è il Forum per la finanza sostenibile.
Perché le industrie tornano in Europa
La pandemia ha fatto da spartiacque. Perché ha paralizzato per mesi le catene di approvvigionamento internazionali, incrementandone i costi e – soprattutto – mettendo in luce le loro debolezze. A questo si sono aggiunte le crescenti pressioni politiche per la sovranità industriale. Nell’Unione europea il rapporto Draghi ha insistito sulla necessità di rafforzare la competitività interna nei settori strategici (decarbonizzazione, tecnologia, ma anche sicurezza). Fornendo così la cornice teorica a cui si è appoggiata la Commissione di Ursula von der Leyen. Ma era stato preceduto anche da iniziative nazionali, come il piano France 2030 per cui Parigi ha stanziato 54 miliardi di euro dal 2021. E, in Italia, il cosiddetto decreto anti-delocalizzazione voluto dal governo Draghi per scoraggiare le chiusure di stabilimenti.
Giulia Culot (Sycomore Asset Management) ha sottolineato come i due terzi dei dirigenti intervistati per un sondaggio di Capgemini abbia almeno avviato una strategia di reindustrializzazione. I motivi? Una maggiore affidabilità delle catene di approvvigionamento (95%), la volontà di avvicinarsi ai clienti finali (92%), le tensioni geopolitiche e la sicurezza nazionale (90%), la riduzione dei costi logistici (80%) e le politiche dei governi (76%). Otto su dieci dicono di voler riportare le industrie in Europa per smarcarsi dalla Cina. Senza dubbio quella di rilocalizzare è una scelta che ha dei costi, ma questi si possono abbattere grazie alle tecnologie digitali. Lo testimonia più della metà delle organizzazioni intervistate.
La reindustrializzazione crea ben pochi posti di lavoro in Europa
Proprio sulla sostenibilità economica si è soffermata Carmela Di Mauro, docente all’Università di Catania. Il cosiddetto reshoring – ovvero il rientro della produzione delle industrie nel Vecchio Continente – è un fenomeno tutt’altro che traversarle. Le aziende che realizzano beni standardizzati, con margini di profitto ridotti, tendono a restare in Asia. Viceversa, a tornare in Europa sono soprattutto quelle di fascia medio-alta, dove qualità, innovazione e prossimità al mercato contano più del prezzo.
A differenza di quanto accadeva in passato, il nodo economico oggi non è più tanto il costo del lavoro. Da un lato, i salari sono in forte aumento soprattutto in Cina. Dall’altro, le imprese che rilocalizzano in Europa lo fanno puntando su impianti fortemente automatizzati. Una scelta, quest’ultima, che senza dubbio abbassa i costi di produzione. Ma genera anche molta meno occupazione. In Europa c’è spazio per molti meno operai e paradossalmente si fatica a trovarli, perché sono ruoli altamente specializzati. Lo European Reshoring Monitor – il database che censisce le industrie precedentemente delocalizzate che rientrano nei confini dell’Unione europea – testimonia che il saldo netto di queste operazioni, in termini di posti di lavoro creati, è modesto.
Cosa serve perché la reindustrializzazione sia anche sostenibile
I manager intervistati da Capgemini ci tengono molto a ricollegare il tema della reindustrializzazione europea a quello della sostenibilità. Il 73% ritiene che questo fenomeno possa favorire una transizione verso pratiche e sistemi produttivi più sostenibili, percentuale in crescita rispetto al 56% del 2024. Più della metà crede che il raggiungimento degli obiettivi climatici della propria organizzazione dipenda proprio dal successo degli sforzi per riportare la produzione in Europa. L’equazione per cui locale equivalga a sostenibile è però ben più sfumata di quanto possa sembrare. O meglio, va alimentata con politiche coerenti che guardino al medio-lungo periodo.
Un esempio fra i tanti: se un oggetto fabbricato in Europa anziché in Cina o Vietnam ha costi di produzione maggiori, il suo prezzo salirà. Senza una domanda adeguata, è una scommessa destinata al fallimento. Se questa domanda esista è uno dei punti aperti. Negli Stati Uniti chi acquista prodotti locali lo fa per spirito patriottico, ha spiegato Carmela Di Mauro. In Europa c’è un 15-20% di propensione di spesa in più per i prodotti locali, ma la motivazione è diversa: i cittadini li percepiscono come più sicuri, etici, affidabili. Non è detto che sia sufficiente. D’altra parte, su 450 milioni di cittadini europei, circa 145 milioni acquistano da Shein e 115 milioni da Temu. Insomma, le industrie potranno anche tornare in Europa ma, se si lascerà piena libertà al mercato di premiare il prezzo più basso, questo fenomeno avrà ben poco di sostenibile.




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