La riforma del governo Meloni che rischia di affossare l’azionariato critico
La riforma del Tuf a cui sta lavorando il governo pone diversi ostacoli all’azionariato critico, limitando la partecipazione alle assemblee
Per alcuni sono “disturbatori”, per altri la definizione corretta – e meno semplicistica – è azionariato critico. Ci sono diverse novità nella riforma del Tuf (Testo Unico Finanza) approvata dal Consiglio dei ministri l’8 ottobre in esame preliminare (formula che lascia la porta aperta a modifiche). La ratio, secondo l’esecutivo, è aumentare la competitività e l’attrattività del mercato dei capitali, allineando l’ordinamento nazionale all’Europa.
Diversi gli interventi proposti. Tra cui la revisione delle norme sull’obbligo di offerta pubblica di acquisto con una soglia unica al 30%, senza distinzioni per le piccole e medie imprese, adeguandosi così all’Europa. Ma anche l’abrogazione dell’obbligo di pubblicazione delle informazioni regolamentate sui quotidiani nazionali (ma ci sono timori per le ripercussioni sui bilanci dell’editoria; e su questo ci sarebbe margine di trattativa). Poi la cosiddetta cooperative compliance, cioè la possibilità di interloquire in via preventiva con la Consob e la Banca d’Italia al fine di evitare procedure di infrazione. E il maggior controllo sulle indiscrezioni e i rumors di mercato.
Il codicillo sull’azionariato critico nascosto nella riforma del Tuf
Ma c’è un’altra previsione destinata a incidere sulla vita delle aziende e – in una visione allargata dell’economia – in quella della società. Il governo, per citare la nota diffusa da palazzo Chigi, al fine di «favorire la funzionalità e fluidità, […] promuove il ricorso a modalità alternative alla riunione in presenza, pur garantendo che una minoranza qualificata (1/20 dei diritti di voto) possa richiedere tale modalità». L’esecutivo, in altri termini, si sbilancia e spinge per le assemblee degli azionisti online rispetto a quelle in presenza. Così una modalità emergenziale figlia dell’epoca del Covid, quando entrò nel pacchetto di misure destinate a rispondere all’emergenza, potrebbe restare nell’ordinamento.
Non solo. Durante la stagione pandemica si prevedeva la possibilità di ricorrere al rappresentante designato anche in deroga allo statuto, se questo dispone diversamente. Di solito si tratta di un legale che raccoglie le deleghe e le intenzioni di voto dei soci/azionisti al fine di rappresentarli in assemblea. Finita l’emergenza, il ricorso a questa modalità avrebbe dovuto nuovamente tornare a essere delegato agli statuti societari.
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Le criticità delle disposizioni sull’azionariato critico nella riforma del Tuf
«In realtà il testo proposto dal governo permette questa procedura anche senza la modifica statutaria, bensì per semplice decisione dell’organo amministrativo, cioè del consiglio di amministrazione», attacca Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica. «Poi, per pudore ma senza specificare assolutamente come, lo schema di decreto legislativo aggiunge che la decisione del cda deve avvenire nel rispetto di alcuni presidi di tutela dei diritti degli azionisti. Ma di quali presidi si parla? Non è specificato chiaramente».
Siliani sottolinea che l’Italia è sotto procedura di infrazione da parte della Commissione europea per scorretto recepimento della direttiva sui diritti degli azionisti delle società. «E lo schema di decreto della scorsa settimana non solo conferma, ma aggrava i motivi che hanno innescato la procedura. Questa si basa proprio sul fatto che lo svolgimento dell’assemblea esclusivamente tramite rappresentante designato dalla società, o, come si dice, ‘a porte chiuse’, rappresenta una violazione dei diritti degli azionisti».
Dal governo italiano una compressione del diritto di critica da parte degli azionisti
Lo schema del governo prosegue poi prendendo in considerazione le assemblee svolte in presenza (“a porte aperte”). In questo caso, lo statuto o il regolamento potranno limitare la partecipazione alla discussione in assemblea ai soggetti che superano una soglia individuale di possesso azionario, segnatamente lo 0,1% del capitale sociale.
«Per cui gli azionisti saranno suddivisi in due categorie», prosegue Siliani. «Quelli di serie A che, detenendo un certo numero di azioni, possono parlare in assemblea, mentre gli altri, quelli di serie B, devono stare zitti. Non si capisce come questa serie di meccanismi punitivi possa essere coerente con l’articolo 47 della Costituzione che recita che la Repubblica favorisce l’accesso al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese».
Il codicillo della riforma del Tuf cancellerebbe insomma, con un tratto di penna, la presenza nelle assemblee delle voci dell’azionariato critico, che oggi possono prendere la parola anche sulla base del possesso di poche azioni. Casi tipici sono quelli di aziende che operano in settori controversi, come i combustibili fossili e le armi. Tutti casi in cui la presenza di azionariato critico ha portato all’attenzione pubblica criticità rilevanti per la responsabilità sociale d’impresa, nel solco di una tradizione nata in America negli anni Settanta. La filosofia alla base dell’azionariato critico dice che che una condotta incoerente o censurabile, anche quando è permessa dalle normative, può nuocere alla reputazione dell’azienda. E, di conseguenza, al suo valore.
Così Fondazione Finanza Etica ha introdotto in Italia l’azionariato critico
L’azionariato critico è stato introdotto in Italia nel 2007 da Fondazione Finanza Etica con l’acquisto di azioni di Enel ed Eni. L’obiettivo era portare la voce della società civile e dei movimenti del Sud del mondo nelle assemblee dei due colossi. Un approccio cui, nel tempo, si sono aggiunte altre realtà come Greenpeace, Setem, Global Witess, ReCommon, Amnesty International Italia.
Per Fondazione Finanza Etica, questo modello ha già prodotto risultati significativi, dimostrando che le imprese rispondono più facilmente a richieste provenienti dai propri azionisti. Ma ha anche il senso di promuovere la partecipazione delle comunità locali nei consigli di amministrazione. Troppo spesso le decisioni vengono prese lontano dai territori su cui andranno a incidere, con il solo obiettivo di massimizzare i ritorni per gli azionisti di maggioranza. Un approccio novecentesco, lontano dai valori del mondo degli anni Venti.
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