Gli azionisti che «rubano» risorse alla transizione energetica

Enormi profitti elargiti agli azionisti dalle società-chiave per la transizione energetica che, poi, chiedono aiuto al pubblico. Per giunta in tempi di nuova austerity

Shell, BP, TotalEnergies ed Eni sono tra le aziende più generose verso gli azionisti © Adrien Le Toux/iStockPhoto

Cosa direste a chi chiede finanziamenti pubblici per poter fare investimenti ma, coi suoi soldi, investe a fatica perché preferisce continuare a far guadagnare tanto a pochi azionisti? Grosso modo è ciò che stanno facendo molte grandi aziende europee operanti in settori-chiave per la transizione energetica.

Le società cruciali per la transizione energetica riempiono le tasche degli azionisti

A rivelarlo è un nuovo rapporto pubblicato oggi da SOMO, centro di ricerca che da oltre cinquant’anni mette sotto la lente il potere delle grandi corporation e il loro impatto su economia e società, insieme a Friends of the Earth Europe. 841 le società quotate analizzate in Europa, inclusi Svizzera e Regno Unito, in alcuni dei settori più carbon intensive. Vale a dire materie prime (prodotti chimici, estrazione mineraria), beni di consumo ciclici (automotive), ovviamente energia fossile (ma anche rinnovabile), utilities.

Dal 2010 al 2023, queste aziende hanno generato utili netti per 2.100 miliardi di euro e ne hanno distribuiti 1.600 agli azionisti. Oltre il 75%, più di tre euro su quattro. Se poi si considera un periodo più ristretto, dall’Accordo di Parigi (fine 2015) in poi, agli azionisti sono andati 1.100 miliardi di euro su 1.400 miliardi di utili. Oltre il 77%, quasi quattro euro su cinque. In rapporto invece al fatturato, tra 2010 e 2023 i pagamenti complessivi agli azionisti (payout), che includono dividendi e buyback (riacquisti di azioni proprie), sono addirittura quasi raddoppiati: dal 2,4% nel 2010 al 4,4% nel 2023.

La top 10 delle imprese più “generose”

A spiccare in queste classifiche di “generosità” verso gli azionisti sono le imprese più grandi, quelle della top 10 in termini di fatturato. Fra queste c’è molta industria fossile, con Shell, BP, Total Energies e l’italiana Eni (Snam è al 117° posto). Ci sono anche colossi dell’automotive, come Volkswagen, Mercedes-Benz, BMW e Stellantis, l’ex-Fiat.

Queste dieci big da sole, nel periodo 2010-2023, hanno distribuito ai propri azionisti più di 600 miliardi di euro. Alcune di esse si sono ulteriormente “distinte”, come Eni, Glencore e BP, che hanno pagato agli azionisti addirittura somme superiori ai loro utili netti. Il 123% Eni, il 156% Glencore, BP è arrivata al 356%. Mentre Snam è fra quelle che spiccano nel rapporto tra payout e fatturato: 27,2% in media nel periodo, 36,6% il picco nel 2017.

Tutto questo va poi letto insieme al fatto che negli stessi anni le società monitorate dallo studio hanno diminuito di 3,5 punti percentuali, dal 18,4% al 14,9%, i tassi d’investimento in asset fissi (in rapporto allo stock accumulato). Gli asset finanziari, al contrario, sono cresciuti di 3 punti, dall’8 all’11%. Anche perché nello stesso periodo, grazie alle condizioni create da politiche monetarie favorevoli, il pagamento degli interessi sostenuto da queste società è sceso: dall’1,6% del fatturato all’1,2%. Tradotto: l’accesso ai capitali non è stato un problema. Si poteva investire. Ma si è deciso diversamente.

Tirata d’orecchi a Friedman e Draghi

La storia che emerge dai dati del rapporto è in rotta di collisione con la narrazione mainstream della grande industria europea. Il rapporto punta infatti il dito contro le società che, mentre riempivano le tasche degli azionisti invece di investire, sostenevano iniziative come la Dichiarazione di Antwerp di febbraio 2024. Attraverso questo documento, sottoscritto da tutte le top 10 di cui sopra direttamente o attraverso enti associativi, i big dell’industria europea hanno chiesto alla Commissione di Bruxelles investimenti pubblici per sostenere competitività, produttività, accesso al capitale. In caso contrario, a detta loro, la transizione energetica sarebbe a rischio.

Dito puntato anche contro documenti come il rapporto Draghi, dove pure si sostiene che i fondi pubblici siano necessari per ridurre il rischio degli investimenti privati nella transizione energetica. E ugualmente dito puntato, sebbene indietro nel tempo, contro le dottrine dell’economista Milton Friedman che negli anni ‘70 hanno spianato la strada alla “dittatura” dello shareholder value (il valore per gli azionisti). Che, come si vede, perdura.

Ma soprattutto all’Unione europea

Ma soprattutto il rapporto critica chi non interviene per cambiare la situazione, vale a dire l’Unione europea. A cui rivolge una serie di precise raccomandazioni. Ad esempio, coordinare gli investimenti pubblici e privati con una supervisione democratica e ponendo chiare condizioni sociali e ambientali. Orientare i fondi pubblici verso i settori che hanno realmente bisogno di risorse, anziché rafforzare meccanismi che rischiano di produrre perdite per il pubblico e guadagni per i privati. Imporre condizioni rigorose ai finanziamenti pubblici per evitare che finiscano a rimpinguare gli azionisti. Valutare la possibilità di vietare temporaneamente i buyback per le aziende finanziate dal pubblico. Chiamare le aziende più inquinanti a rispondere dei costi dei danni ambientali causati.

In sintesi, è dare la priorità agli azionisti – rispetto al reinvestimento – ed elargire fondi pubblici in modo incondizionato che mette a rischio la transizione energetica. Non viceversa. Per giunta in un periodo in cui i falchi dell’austerità hanno ripreso a volare minacciosi, con il rischio di tagli agli investimenti pubblici su clima, servizi pubblici e infrastrutture. «L’approccio politico dell’Unione europea – sentenzia nel finale il report – deve concentrarsi su investimenti responsabili che bilancino le esigenze delle persone, del pianeta e dell’economia. Non su sussidi che avvantaggiano in modo sproporzionato i pochi ricchi a spese dei molti». Una sonora tirata d’orecchi.