Speculazione, pc contro umani. E i “bagarini” invadono Wall Street

Buyback Vs High frequency trading: diverse strategie, stessa speculazione al rialzo. Ma in Borsa è una lotta impari

Matteo Cavallito
© gorodenkoff/iStockPhoto
Matteo Cavallito
Leggi più tardi

«La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’essere umano». Lo scriveva due decenni or sono il vecchio Milan Kundera nell’incipit de La Lentezza. Parole che sembrano il sottotitolo di una moderna commedia della speculazione che coinvolge oggi le grandi corporation impegnate nel buyback azionario con tutte le insidie che esso comporta. Dal 2010 a oggi, dicono gli ultimi dati, Wall Street ha registrato operazioni di riacquisto titoli per 4 trilioni di dollari. Una speculazione legalizzata che dovrebbe trovare ulteriori spinte nel 2018 grazie soprattutto alla rinnovata disponibilità di cash delle corporation americane.

Ma i limiti della regolamentazione fissata dalla SEC rischiano, paradossalmente, di favorire un’altra categoria di speculatori che dell’estasi in senso letterario (non letterale, s’intende) hanno fatto un business in senso stretto: gli operatori dell’high frequency trading (HFT).

Algoritmi al potere

Quello ad altra frequenza è un sistema di scambio basato sulle operazioni algoritmiche. Comanda il computer, insomma. È lui che intercetta gli ordini e anima le operazioni. Comprare, vendere e poi ancora comprare nello spazio dei millisecondi così da guadagnare sulle variazioni marginali di prezzo. Le stime sui profitti non sono note, ricorda la Reuters, ma è lecito credere che siano nell’ordine dei miliardi di dollari. Guadagni extra che si traducono di riflesso in costi aggiuntivi a carico dei broker; una sfida sulla speculazione, insomma.

Una nuova forma di bagarinaggio

Brad Katsuyama, gestore della piattaforma finanziaria IEX, ha paragonato l’HFT al bagarinaggio, l’attività che consente agli accumulatori di biglietti di realizzare una speculazione al rialzo nel mercato “secondario”. Un’analogia che gli era apparsa in tutta la sua chiarezza già nello scorso decennio, quando sedeva al trading desk di Royal Bank of Canada: “Provavo comprare 10mila azioni Microsoft e il sistema informatico me ne faceva acquistare solo 4.000. Il prezzo del titolo nel frattempo aumentava” ha raccontato a febbraio al giornalista della ABC Dan Harris. “Se provavo a comprarne altre 6mila riuscivo ad averne solo 2mila e il valore del titolo decollava. In pratica non avevo mai la possibilità di comprare (con una sola operazione, ndr) tutto quello che vedevo sul monitor”.

La verità è che il trader di RBC veniva sistematicamente bruciato sul tempo. I computer dei flash boys – per dirla con un celebre saggio di Michael Lewis – sfruttavano la loro velocità di esecuzione per comprare in anticipo le azioni e rivenderle pochi istanti dopo a prezzo maggiorato. Titoli azionari, biglietti per un concerto, che differenza fa? Vince la frustrazione della lotta impari: la fatica del trader tradizionale schiacciato dalla tecnologia immateriale. Pare davvero di rileggere l’autore de La lenteur e il suo soliloquio dell’uomo appiedato “più che mai consapevole di se stesso e del tempo della sua vita”. Gli si contrappone l’anonimo motociclista che “delega il potere di produrre velocità a una macchina”: per quest’ultimo “tutto cambia: il suo corpo è fuori gioco e la velocità a cui si abbandona è incorporea, immateriale – velocità pura, velocità in sé e per sé, velocità-estasi”. Appunto…

Il buyback in trappola

Il meccanismo, nota però qualcuno, funziona anche “contro” il buyback, e il paradosso è che a favorire il fenomeno è la stessa attività regolamentare. Il riacquisto azionario da parte delle corporation è stato legalizzato nel 1982 quando la SEC ha introdotto la rule 10b-18, la cosiddetta norma del “porto sicuro” (safe harbour).

In sintesi: per avere la certezza di non essere accusate di manipolazione, le società che ricomprano i propri titoli in borsa devono rispettare alcune condizioni, tra cui l’acquisto delle azioni al prezzo prevalente. Semplificando, se le ultime azioni passate di mano sono state vendute a 10 dollari e quelle sul mercato sono ora offerte a 10,01, la società non può comprarle a quel prezzo prima che lo abbia già fatto qualcun altro.

Il risultato è che i broker sono soliti piazzare gli ordini “in attesa”, aspettando cioè che un altro trader acquisti prima di loro a quella stessa cifra. Ed è proprio in quell’intervallo di tempo che l’high frequency trading può intervenire senza difficoltà gonfiando – legalmente – il prezzo dei titoli. Una vera beffa.

Il 27 marzo scorso, John Ramsay, Chief Market Policy Officer di IEX, ha inviato una lettera alla SEC invitando quest’ultima a rivedere la normativa.

Al momento, tuttavia, non si conoscono risposte da parte dell’authority. Alla vigilia della crisi, l’HFT copriva meno del 30% dei volumi sui titoli dello S&P 500; nel 2009 aveva superato quota 60. Negli ultimi anni il fenomeno si è parzialmente ridimensionato ma gli algoritmi, dicono i dati più recenti, detterebbero ancora legge su quasi metà degli scambi.