Si allarga il fronte delle proteste contro i “war bond” israeliani

Attraverso i "war bond", Israele alimenta anche la sua macchina da guerra. E chi vi investe è accusato di sostenere lo sterminio a Gaza

Chi investe nei war bond israeliani è accusato di sostenere indirettamente lo sterminio della popolazione palestinese © vlad_karavaev/iStockPhoto

Sono noti come “war bond“, obbligazioni di guerra. Ma anche “genocide bond”, obbligazioni del genocidio, come sempre più studiosi ed esperti della materia – di recente anche l’autorevolissima International Association of Genocide Scholars – qualificano lo sterminio della popolazione palestinese che l’esercito israeliano sta compiendo a Gaza. E ovviamente hanno attirato un mare di polemiche.

La finanza che sostiene “l’economia del genocidio”

Il caso dei war bond si inserisce nel più vasto dibattito sul coinvolgimento degli attori finanziari nella cosiddetta “economia del genocidio”. Questa la definizione che propone il rapporto pubblicato a inizio luglio da Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati (Opt). La questione richiama, inoltre, le iniziative che il movimento Bds (Boycott, Divestment, Sanctions) invita a prendere da vent’anni per contribuire a porre fine all’occupazione dei Territori palestinesi e all’apartheid del governo israeliano verso i cittadini arabo-palestinesi.

Il governo israeliano sta finanziando la sua costosissima macchina da guerra anche grazie alle risorse che raccoglie sui mercati internazionali emettendo obbligazioni. Chi investe in tali titoli, o comunque fa parte del circuito di attori che rendono possibile la loro commercializzazione sui mercati internazionali, viene dunque accusato di sostenere lo sterminio, seppur indirettamente. Il ragionamento ricalca quello fatto per i colossi dell’oil&gas. Del resto questi bond sono promossi presso i potenziali acquirenti dicendo esplicitamente che aiutano a sostenere Israele nella guerra. Lo stesso presidente israeliano Isaac Herzog ne ha sottolineato il ruolo cruciale in tal senso.

Le pressioni sulla Banca centrale irlandese

La polemica è particolarmente viva in Irlanda, uno dei pochi Stati europei ad aver mosso passi concreti per fare pressione sul governo israeliano, riconoscendo lo Stato di Palestina e sostenendo le accuse di genocidio avanzate dal Sudafrica presso la Corte internazionale di giustizia. La campagna contro i war bond chiedeva coerenza anche sul fronte finanziario e ha preso di mira la Banca centrale irlandese (Cbi). Quest’ultima era infatti l’autorità designata nell’Unione europea per approvare la vendita delle obbligazioni di Israele, Paese extracomunitario.

Mesi di proteste infuocate, picchetti, appelli pubblici, con discussioni anche nel Dáil (la camera bassa del Parlamento) non avevano smosso la banca centrale. Nonostante molti sostenessero che, dato che la Corte internazionale di giustizia ha ritenuto plausibile il fatto che Israele stia commettendo un genocidio, la Cbi aveva la sponda giuridica per smettere di convalidare i war bond. E, non facendolo, rischiava di esporre l’Irlanda a un’accusa di complicità nei crimini a Gaza. Alla fine la Cbi ha ceduto, anche se nel modo più pilatesco. Ha aspettato che l’accordo sul proprio ruolo di regolatore dei war bond scadesse, a inizio settembre, e non l’ha rinnovato. Per l’approvazione dei war bond ora Israele si avvarrà dei servigi della Commission de surveillance du secteur financier del Lussemburgo.

Un effettivo divestment dai war bond, di circa mezzo miliardo di dollari, è invece quello che aveva compiuto il Fondo sovrano norvegese a fine 2023. Aveva pesato anche la pressione della Confederazione norvegese dei sindacati, la più grande federazione sindacale del Paese, che sostiene il movimento Bds e nei mesi scorsi ha votato a schiacciante maggioranza il boicottaggio totale verso Israele. Più di recente la Chiesa metodista unita, una delle maggiori confessioni cristiane, ha annunciato il disinvestimento dai titoli di governi che mantengono prolungate occupazioni militari illegali. Cioè Israele, Turchia, Marocco.

War bond e finanza sostenibile: una contraddizione in termini

I war bond sono anche un punto di domanda grosso come una casa per la finanza sostenibile. Che sta vivendo una enorme crisi di credibilità sotto i colpi del greenwashing e di inchieste e scandali di cui non si vede la fine.

Come si può, infatti, affermare di ricercare la sostenibilità negli investimenti, che ha nella tutela e promozione dei diritti umani uno dei suoi pilastri, mentre si dà sostegno finanziario a uno Stato accusato di ciò di cui è accusato Israele? Come minimo è una contraddizione, ma di proporzioni cosmiche. E a mostrarla in tutta la sua evidenza è ancora una volta il rapporto di Francesca Albanese. Che ricorda come il supporto di un gran numero di attori finanziari a occupazione e apartheid israeliani avvenga nonostante molti di essi si siano formalmente impegnati a rispettare i Principi per l’investimento responsabile (Pri) e il Global Compact delle Nazioni Unite.

Israele, è scritto nel rapporto, ha messo il turbo alle emissioni obbligazionarie per sostenere lo sforzo militare. La Development Corporation for Israel, che colloca le obbligazioni israeliane presso investitori all’estero, da ottobre 2023 ha convogliato quasi 5 miliardi di dollari verso Israele. Circa 400 investitori di 36 Paesi hanno acquistato queste obbligazioni. Come si fa a credere a questi signori quando si riempiono la bocca di paroloni sul rispetto dei diritti umani nelle politiche di investimento? Come si possono tenere insieme “genocide bond” e sostenibilità?

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