Clima, le 12 opere che rischiano di condannare la Terra
Un rapporto di 18 Ong denuncia 12 mega-opere che potrebbero vanificare gli sforzi della comunità internazionale nel tentativo di salvare il clima
Il 12 dicembre del 2015 veniva raggiunto l’Accordo di Parigi sul clima. La comunità internazionale sembrava aver finalmente preso coscienza dell’emergenza. In cinque anni, però, il mondo non ha saputo trasformare le parole in azioni concrete. Almeno per quanto riguarda chi gestisce capitali talmente ingenti da essere in grado di decidere le sorti del Pianeta. A confermarlo sono 18 organizzazioni non governative internazionali, tra cui anche l’italiana Re:Common, che hanno pubblicato un rapporto intitolato “I 12 progetti che rischiano di distruggere il Pianeta”.
Lo studio analizza una serie di mega-opere fossili attualmente in fase di sviluppo. Che, se venissero realizzate, causerebbero il rilascio nell’atmosfera di 175 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio. Pari ad oltre la metà del quantitativo totale che potremo permetterci di disperdere nell’atmosfera nei prossimi anni. Ciò se vorremo limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 1,5 gradi centigradi, entro la fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali.
Le responsabilità del mondo della finanza
A guidare l’espansione fossile sono società come l’italiana Eni, la francese Total, l’anglo-olandese Shell e le altre major dell’oil&gas. Ma anche la finanza gioca un ruolo da protagonista. Dalla firma dell’Accordo di Parigi a oggi, infatti, le principali banche e i fondi di investimento mondiali hanno concesso astronomici finanziamenti alle società attive nei 12 progetti. Per un totale di circa 1.600 miliardi di dollari.
Le colpe della finanza
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«Sono passati cinque anni dall’Accordo di Parigi. Eppure il modello di business dell’industria fossile è rimasto immutato – ha dichiarato Alessandro Runci di Re:Common, tra gli autori del rapporto -. Società come Eni hanno continuato a espandersi, come in Mozambico, dove la scoperta di enormi riserve di gas si è trasformata in una maledizione per le comunità. Banche come UniCredit e Intesa Sanpaolo devono smettere immediatamente di finanziare le società che stanno devastando il Pianeta».
Chi finanzia le fonti fossili
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Tra i casi più rilevanti inclusi nel rapporto c’è appunto l’espansione dell’industria del gas in Mozambico. Guidata da Eni e dalla francese Total. Il cui impatto nella regione di Capo Delgado è particolarmente preoccupante.
Nel Mediterraneo orientale, un’altra società italiana, Edison, risulta tra le proponenti del mega gasdotto EastMed. Esso dovrebbe collegare i giacimenti di gas della regione, molti dei quali controllati da Eni, con i mercati europei.
«In Suriname – indica Re:Common – la scoperta di un enorme giacimento di petrolio ha innescato una corsa all’accaparramento delle risorse che mette a rischio il delicato ecosistema del Paese sudamericano. Nel nord della Patagonia, Total e Shell sono tra le più attive nelle attività di fracking, la fratturazione idraulica delle rocce alla ricerca di shale gas. Nonostante anche le Nazioni Unite abbiano evidenziato delle criticità, sia per gli impatti ambientali e climatici, che per quelli sulle comunità e i popoli indigeni che abitano la regione».
Il carbone è invece il protagonista di progetti in Cina, India e Bangladesh, dove l’industria si sta continuando a espandere, ignorando gli appelli della comunità scientifica ad abbandonare la fonte fossile entro il 2040.
I grandi finanziatori: da BlackRock a BNP Paribas
Per quanto riguarda la finanza, i giganti americani BlackRock, Vanguard e Citigroup guidano la classifica dei maggiori finanziatori delle società coinvolte in questi progetti, seguiti dalle inglesi Barclays e HSBC e dalla francese BNP Paribas.
Ma ad alimentare l’espansione fossile ci sono anche le italiane Intesa Sanpaolo e Unicredit, che complessivamente, dal 2016 ad oggi, hanno concesso 30 miliardi alle società attive nel settore.
«Va specificato però che mentre Unicredit ha recentemente adottato delle politiche sui combustibili fossili che vanno nella giusta direzione – spiega Re:Common – Intesa Sanpaolo rimane il fanalino di coda tra le banche mondiali, e uno dei pochi istituti di credito europei a non aver ancora indicato una data per il phase-out del carbone».