Gli allevamenti ittici giustificati dalla FAO sono sostenibili?

Gli attivisti scrivono alla FAO: gli allevamenti ittici sono devastanti per l'ecosistema

Linda Maggiori
Un allevamento ittico intensivo, tra le cause della distruzione dei mari © Francesco De Augustinis
Linda Maggiori
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Secondo la FAO, in termini pro capite il consumo globale di pesce è cresciuto da 9 kg del 1961 a 20,2 kg del 2015 e raggiungerà i 21,5 kg nel 2030. Anche perché nel frattempo la popolazione mondiale è cresciuta da 3 a quasi 8 miliardi di persone. In tutto questo gli italiani ne consumano 34 kg all’anno, quindi almeno 14 kg di più della media mondiale. In base a questi dati si può immaginare l’imponente saccheggio dei mari. Il 90% delle specie ittiche è sovrappescato.

Durante la COP 28 di Dubai, nel 2023, la FAO (Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite) ha pubblicato una roadmap per trasformare il sistema alimentare, e tra le altre cose ha proposto un’ulteriore impennata della produzione dell’acquacoltura entro il 2040. Un + 75% rispetto al 2020. Ma questa visione è sostenibile? La risposta, ovviamente, è negativa. Gli allevamenti ittici sono devastanti.

Negli allevamenti ittici l’indice di conversione è assurdo

In Europa il mercato dell’itticoltura vale 5 miliardi di euro, con la Norvegia in testa che produce 1,4 milioni di tonnellate di pesce, a seguire Spagna, Francia, Italia e Grecia. A livello mondiale è la Cina a detenere da sola il 57% della produzione di acquacoltura. Ma gli allevamenti intensivi di pesce sono davvero una soluzione?  Francesco De Augustinis, giornalista e regista del film inchiesta Until the end of the world (il terzo di una serie di inchieste sull’alimentazione sostenibile) racconta:

«L’acquacoltura sta crescendo vertiginosamente a causa dei sussidi dati dai Governi e giustificati dalla FAO, che la considera una pratica sostenibile. Eppure vengono sovvenzionati soprattutto allevamenti di specie carnivore, tonni, gamberi, orate, spigole. Alimentati con pesci selvatici, in un indice di conversione estremamente alto. Si va dagli 1,4 kg di pescato per 1 kg di prodotto allevato dichiarati dall’industria delle spigole, ai 25 kg di selvatici per 1 kg di tonno allevato. L’itticoltura non serve quindi a ridurre l’overfishing, anzi, amplifica il saccheggio degli stock ittici».

I mari sono saccheggiati per ottenere mangime

In Grecia il documentario mostra interi paradisi marini invasi dalle gabbie dell’itticoltura intensiva con le deiezioni che distruggono i fondali. In Senegal, dove la pesca tradizionale e sostenibile è alla base dell’alimentazione locale, i pescatori protestano per la mancanza di pesce, dovuta ai pescherecci industriali che saccheggiano i mari del Sud per ottenere le materie prime necessarie a creare farina di pesce. Fino al 7% dei pesci selvatici pescati per le farine alimentari (123mila-144mila tonnellate) destinate agli allevamenti ittici, sono piccoli pelagici catturati lungo le coste dell’Africa occidentale, dove avrebbero potuto sfamare tra i 2,5 e i 4 milioni di persone.

Il documentario si spinge poi fino alla fine del mondo, in Antartide, dove si pesca il krill per la farina di pesce. «Il krill è già in sofferenza, e così facendo si rischia di togliere la base dell’alimentazione dei grandi mammiferi marini, degli uccelli marini, quindi minando uno degli ecosistemi più fragili del Pianeta», spiega il regista. Uno studio pubblicato nel 2024 dall’Ong inglese Feedback, ha rivelato che nel 2020 gli allevamenti norvegesi di salmone hanno utilizzato quasi 2 milioni di tonnellate di pesce selvatico commestibile per produrre olio di pesce destinato ai mangimi che hanno prodotto quasi 1,5 milioni di tonnellate di salmone allevato.

E questo ha pesanti ricadute sull’ecosistema marino

L’allevamento ittico ha pesanti ricadute sull’ecosistema marino. «L’allevamento di gamberetti è al primo posto come fattore che contribuisce all’eutrofizzazione delle acque con 220,6 grammi di fosfato equivalenti (PO4-eq), per ogni Kcal di cibo prodotto, mentre il resto del pesce allevato contribuisce con 131,4 grammi. Si tratta di una quantità eccessiva di nutrienti (nitrati e fosfati) dispersi nelle acque che comportano inquinamento, aumento delle mucillagini e soffocamento delle forme di vita», spiega il biologo Enzo Spisni.

«Il potere eutrofico è più alto che quello degli allevamenti a terra. Proprio perché non c’è alcun sistema per raccogliere i liquami, che si disperdono direttamente in mare in grandi quantità. Ci sono oltre 400 dead zone in tutto il mondo, dove il mare è praticamente morto, a causa dell’eutrofizzazione», continua Spisni.

E anche sull’inquinamento globale

Carlo Franzosini, biologo marino dell’Area Marina Protetta Miramare incalza: «L’impatto sugli habitat è devastante. Gli allevamenti provocano un grave impoverimento delle praterie di Posidonia, che tra l’altro sono fondamentali per il sequestro di CO2. Dalla Grecia, al golfo di Gaeta alla Spagna, per ogni ettaro di allevamento ittico ci sono 10 ettari di praterie di Posidonia colpite negativamente. Inoltre, il pesce selvatico pescato in gran quantità per alimentare i pesci allevati, viene sottratto alla catena alimentare, portando alla denutrizione degli sgombri e di tutti i predatori intermedi, riducendo a catena tutti gli stock ittici».

«Un altro aspetto di cui non si parla è il grande spreco di acqua dolce, fino a 25 mila litri per kg di pesce allevato», prosegue Franzosini. «A questo si aggiungono circa 800-900 kg di antibiotici, antiparassitari e disinfettanti immessi nelle gabbie per ogni mille tonnellate di pesce allevato, sostanze che non si possono recuperare o depurare e finiscono direttamente nell’ambiente marino».

La lettera degli attivisti alla FAO

Molte associazioni animaliste, da Essere animali a Human League, hanno denunciato inoltre le pessime condizioni di vita del pesce negli allevamenti intensivi, costretti in gabbie sovraffollate. Per questo una lettera firmata da 160 gruppi di attivisti chiede alla FAO che gli allevamenti di pesci carnivori come salmoni, spigole, orate, trote, gamberi, tonni non siano più indicati come un modello sostenibile, su cui investire fondi pubblici.

«La FAO deve smettere di etichettare questa attività distruttiva come sostenibile», ha affermato Catalina Cendoya, direttrice del Global Salmon Farming Resistance. Un network che raccoglie centinaia di comunità che si oppongono in varie parti del mondo al proliferare degli allevamenti di salmone e di altre specie. Secondo le associazioni è infine necessario distinguere ciò che è acquacoltura sostenibile, come l’allevamento di alghe o bivalvi su piccola scala, da ciò che è distruttivo, come l’allevamento ittico di specie carnivori.