Banche alla guerra sulle regole di Basilea III
La Federal Reserve, pressata dalle banche, annacqua le regole che renderebbero il sistema creditizio più resiliente. Anche l’Unione europea rallenta
Anche nel settore finanziario soffiano purtroppo sempre più forti i “venti di guerra”, sebbene in questo caso si tratti di una guerra a norme e regolamenti. A generarli sono le banche statunitensi, che continuano a lottare strenuamente per evitare l’applicazione di regole pensate, in sostanza, per contenere quei rischi sistemici che contribuirono allo scoppio della grande crisi finanziaria del 2007-08. O, se proprio non si può farne a meno, per annacquarle il più possibile. In modo che, dietro l’impressione che qualcosa stia cambiando, di fatto nulla cambi. E si possa continuare a fare banca, diciamo così, rischiando e azzardando un po’ qua e un po’ là a caccia di profitti.
Cosa prevedono le regole di Basilea III
Oggetto del contendere è Basilea III, una storia infinita nata negli anni immediatamente successivi alla grande crisi e non ancora terminata. Si tratta di regole che mirano a elevare i requisiti di capitale delle banche, cioè i fondi che gli istituti di credito devono accantonare in base alla rischiosità delle attività a cui prestano denari. E a ridefinire il modo in cui calcolare i rischi di cui le banche devono tenere conto, cercando di imporre degli standard validi per tutti.
Va da sé che, se da un lato si abbassano i requisiti di capitale richiesti e dall’altro si rendono meno rigorosi i criteri con cui calcolare e valutare i rischi, o comunque si lasciano spazi di discrezionalità troppo ampi nella loro definizione, si finisce inevitabilmente per depotenziare l’impianto regolamentare. Rendendolo meno efficace nel conseguimento degli obiettivi per cui è stato pensato: rendere le banche più resilienti agli shock e incrementare la possibilità di vigilare sui rischi sistemici, per poterli disinnescare.
L’entrata a gamba tesa della Federal Reserve
L’Unione europea ha previsto l’entrata in vigore di Basilea III a partire dal primo gennaio del 2025. Con l’obbligo per gli Stati membri di recepire le modifiche regolamentari nei propri ordinamenti nazionali entro diciotto mesi. Ma c’ha pensato la Federal Reserve, la banca centrale statunitense, a entrare a gamba tesa. Rinfocolando così anche in Europa un dibattito che non si era comunque mai esaurito.
Ai primi di settembre, infatti, Michael Barr, vicepresidente alla supervisione bancaria in Fed, ha annunciato che per le banche americane l’aumento medio previsto dei requisiti di capitale non sarà del 19%, come la Fed aveva in prima battuta ipotizzato nel 2023 in applicazione degli accordi di Basilea III, bensì del 9%. E questo solo per le più grandi, perché quelle con asset inferiori ai 250 miliardi di dollari non si vedranno imporre alcun aumento.
Una vittoria per le lobby di Wall Street
La Fed, di fatto, ha prestato ascolto alla potente azione di lobbying portata avanti dai colossi bancari a stelle e strisce. Per non dire che si è piegata ai diktat ricevuti. Si pensi che i grandi nomi di Wall Street hanno addirittura acquistato delle pubblicità durante le partite di football americano per attaccare i nuovi regolamenti e portare l’opinione pubblica dalla propria parte.
Ma non è finita. Perché negli Stati Uniti l’attuazione dei nuovi regolamenti, a prescindere da quali saranno alla fine, non è prevista prima della metà del 2026. Ma più probabilmente avverrà dopo: se nello Studio Ovale dovesse tornare Trump, ad esempio, non è difficile immaginare che anche la Casa Bianca inizierebbe a soffiare contro la riforma.
Oltre 200 fra organizzazioni non governative e gruppi della società civile statunitensi, riuniti nella coalizione Americans for Financial Reform che si batte per un sistema finanziario più forte, stabile e etico, hanno scritto una dura lettera aperta al presidente della Fed, Jerome Powell. Lo accusano di aver organizzato incontri a porte chiuse con i vertici delle grandi banche per concordare un aggiustamento delle nuove regole che fosse di loro gradimento. In cambio della rinuncia, da parte delle banche stesse, ad attaccare la riforma per vie legali.
Anche l’Unione europea rallenta sulle regole di Basilea III
Il pressing sfiancante – e coronato dal successo – delle banche statunitensi per allentare le nuove regole non poteva non avere conseguenze anche in Europa. Dove gli istituti di credito hanno iniziato a chiedersi che senso aveva fare uno sforzo per definire regole comuni, se poi non tutti le applicano nello stesso modo e neppure nello stesso momento.
Così già a giugno l’Unione europea, pressata anch’essa dalle banche, ha deciso di rimandare di un anno (a inizio 2026) l’entrata in vigore di una parte delle regole di Basilea III, quelle riguardanti i rischi di mercato. Del resto, il timore di subire svantaggi competitivi rispetto ai competitor americani è ancora più legittimo se si aggiunge che il Regno Unito, nel mettersi al passo con la riforma, potrebbe decidere di seguire il calendario “rallentato” degli Stati Uniti e non quello “accelerato” dell’Unione europea.
Ma il punto vero è un altro. E cioè che nel comparto non sembra siano in molti a interessarsi degli effetti potenzialmente dirompenti che un annacquamento e un ritardo nella riforma potrebbero comportare per la stabilità dell’intero sistema creditizio. Il che vuol dire per tutti noi, al di qua e al di là dell’Atlantico. Come dire che la crisi del 2007-08 sembra non aver insegnato nulla.