Sui tassi d’interesse Powell sfida Trump. Ma a guadagnare sono sempre i grandi fondi

Jerome Powell difende la politica dei tassi alti, osteggiata da Donald Trump. Ma al capitalismo finanziario statunitense interessa poco

Jerome Powell, presidente della Federal Reserve © Federal Reserve/Wikimedia Commons

Giochi di potere. Jerome Powell, il presidente della Federal Reserve, dopo aver ridotto i tassi di 0,25 punti portandoli a una forchetta tra 4,50 e 4,75, ha annunciato, in maniera molto ruvida, di non avere alcuna intenzione di dimettersi qualora il neo presidente Donald Trump glielo chiedesse. Powell è stato nominato proprio da Trump, ma si è avvicinato alle posizioni monetarie di Joe Biden, favorevoli ai tassi alti. Subendo così le critiche dello stesso Trump, solerte nell’ipotizzare una sua sostituzione in caso di vittoria.

L’indipendenza della Federal Reserve non è più un dogma

È bene ricordare che Powell aveva preso il posto di Yanet Yellen che, a differenza dei suoi predecessori, aveva fatto un solo mandato tra il 2014 e il 2018. In precedenza era dai tempi di Paul Volcker, dopo la “riforma” del 1977-78, che i presidenti della Fed avevano beneficiato di lunghi mandati. Lo stesso Volcker è rimasto in carica dal 1979 al 1987, Alan Greenspan dal 1987 al 2006 e Ben Bernanke fino al 2014, quando arrivò, appunto, Yellen.

Dunque, Powell è stato il primo presidente che è subentrato dopo un solo mandato di Yellen che ha pagato la volontà di Trump di sostituirla, infrangendo la tradizione dell’indipendenza della guida della Fed. L’attuale vertice della banca centrale americana teme quindi che Trump applichi nei suoi confronti la misura che lo ha portato alla nomina. Invoca quindi con forza la sua non sostituibilità fino al maggio 2026, naturale scadenza del mandato.

Sarà scontro tra Jerome Powell e Donald Trump?

Ho ricordato questa vicenda storica perché la presa di posizione di Powell, molto forte, assume i caratteri della difesa della strategia monetaria dei tassi alti, osteggiata da Trump che invece è decisamente favorevole al loro taglio. In altre parole Powell, in nome dei possibili rischi inflazionistici dettati dalla visione annunciata dal neo presidente di aumentare i dazi e di far correre il deficit federale, intende rimarcare la linea del rigore nella concessione dei crediti per mantenere solido il dollaro e per evitare l’inflazione.

In questo senso, Powell sembra voler smontare le ragioni del successo di Trump che proprio sui danni generati dall’inflazione, sui dazi e sull’espansione del deficit ha costruito la sua vittoria. La Fed di Powell pare voler interpretare la linea di immediato indebolimento della credibilità di Trump, rendendo impossibile una parte fondamentale del suo programma.

Mantenere i tassi alti significa fare un favore ai grandi fondi

In realtà le dichiarazioni di Powell sul mantenere i tassi alti, frenandone la discesa, hanno finito per favorire i soliti vincitori. Perché, se le politiche monetarie restano restrittive, vincono coloro che hanno liquidità anche senza l’aiuto della Fed, come è avvenuto negli ultimi quattro anni. Non è un caso che stiano correndo tutti i titoli sostenuti dai grandi fondi, quelli appunto dotati della liquidità del risparmio gestito. Compresa Tesla di cui – è bene ricordarlo – Elon Musk ha il 13%, ma BlackRock, Vanguard e State Street hanno oltre il 15%.

È evidente che il capitalismo finanziario statunitense sta già trovando il proprio equilibrio e le dichiarazioni di Powell risultano assai irrilevanti. Come del resto dimostra la forza del dollaro che dipende molto più dalla certezza della continuità del monopolio finanziario Usa che dalle dichiarazioni di Powell. E persino di Trump.