Cop29, la roadmap per tentare di salvare la conferenza

I negoziati di Baku sono difficilissimi ma, secondo gli esperti, c'è una strada per portarli al successo. Almeno sul fronte della finanza

I negoziati della Cop29 sono molto difficili © UN Climate Change - Kiara Worth

Meno tre. Alla chiusura della Cop29 mancano solo tre giorni – al netto di eventuali tempi supplementari. Ma, nel corso della prima settimana e mezzo, i passi avanti sono stati pochi e le differenze tante. Per questo gli analisti si stanno interrogando su quali percorsi rimangano aperti per portare il summit al successo. Le ipotesi sono diverse, ma tutte passano da due elementi chiave: il Nord globale che accetta di elargire molti più soldi di prima, e la Cina che trova un modo per lei accettabile di essere almeno parzialmente inclusa nella platea dei donatori.

Il contesto: per cosa si tratta alla Cop29

Alle Cop le negoziazioni sono molte e parallele. Negli anni si sono accumulati più tavoli, ognuno con compiti specifici e teoricamente indipendenti gli uni dagli altri. Ma in realtà i diversi filoni di trattativa si parlano e, di edizione in edizione, è chiaro quale sia il principale, a seconda dei mutamenti dello scenario geopolitico e dei rapporti di forza tra gli Stati. Quest’anno, come abbiamo spiegato su queste pagine, il fulcro del negoziato è il New Collective Quantified Goal (Ncqg). Si tratta dei flussi finanziari che i Paesi industrializzati promettono di mettere a disposizione del cosiddetto Sud globale – Africa, America Latina, buona parte dell’Asia – per misure di transizione ecologica.

Il vecchio obiettivo, stabilito nel 2009, era di 100 miliardi di dollari l’anno tra soldi pubblici e privati, prestiti e fondo perduto. Questa volta il G77 – il gruppo negoziale che riunisce di fatto tutti i paesi che contano di ricevere i fondi – punta a più che decuplicare il numero: tra i 1.000 e i 1.300 miliardi di dollari l’anno. I Paesi che quei fondi dovranno fornirli sperano invece in un quantum ridotto, e insistono semmai perché si allarghi l’elenco dei donatori, includendo la Cina e altre nazioni ormai sviluppate come i Paesi del Golfo Persico.

Non si tratta solo di cifre. Per molti tra i Paesi più poveri la priorità è che il grosso della finanza climatica sia a fondo perduto, e non costituisca nuovo debito. Per gli Stati insulari del Pacifico è importante avere una quota di denaro a loro riservata. Per chi ha bisogno di importanti opere di adattamento è essenziale che quanti più soldi possibili vengano dalle casse pubbliche del Nord del mondo. E non dai mercati, che difficilmente avranno interesse a finanziare riforestazione o lotta al dissesto idrogeologico.

Il percorso (stretto) per il successo della Cop29 di Baku

Il Ncqg, l’obiettivo finanziario, è davvero l’unico punto negoziale dal quale ci si aspettano risultati. Al punto che, poche notti fa, i gruppi di lavoro dedicati ad alcuni degli altri temi hanno applicato la regola 16, quella che prevede di chiudere il tavolo e rinviare il tutto al prossimo incontro. Nel caso di specie, i negoziati intermedi di Bonn previsti all’inizio del 2025. Tra loro anche il gruppo di lavoro principale sulla mitigazione (Mitigation Work Programme) e quello sul loss and damage (i risarcimenti dei danni provocati dalla crisi climatica nei Paesi in via di sviluppo). Una decisione con pochi precedenti, e ancora meno precedenti ha il suo ribaltamento. Mukhtar Babayev, il presidente della Cop29 scelto dal governo azero, ha deciso di riaprire d’imperio i lavori di quei gruppi che li avevano chiusi. È in suo potere farlo, ma non è chiaro su che basi discuteranno quei delegati finora così distanti.

Perché questa decisione? Possiamo solo speculare. Ma una lettura la offrono gli analisti di Italian Climate Network. «Probabilmente, pensiamo qui al Mitigation Work Programme, per lasciare almeno una via di fuga, una valvola di sfogo politica all’Unione europea. Piccoli contraltari (pur adatti alla funzione) rispetto all’altare principale di questa Cop, l’obiettivo di finanza appunto». Il vero obiettivo, insomma, rimane il Ncqg. Parlare di mitigazione permette di offrire qualche ricompensa all’Unione europea, a suo agio su questo dossier, in cambio degli impegni necessari sulla finanza.

E ora? Cosa aspettarsi dagli ultimi giorni di negoziati

La presidenza ha chiesto a Brasile e Regno Unito di facilitare i lavori sulla finanza. Si tratta del prossimo Paese ospitante – la Cop30 sarà a Belem – e dell’ultimo paese ricco ad averne ospitata una – la Cop26 di Glasgow del 2021. Ma, a leggere tra le righe, si tratta anche dei due soli Paesi che si sono fatti notare a questo summit per aver portato degli impegni nazionali rilevanti. Il Brasile, poi, anche fuori dal contesto delle Cop è considerato un ambasciatore tra Nord e Sud globale, tra Cina e Stati Uniti, tra G7 e BRICS+.

Su mitigazione, loss and damage, Global Stocktake e tutti gli altri dossier aperti, la possibilità di avere novità rilevanti è minima. Salvo sorprese ora imponderabili. «I negoziatori che si occupavano di questioni relative a perdite e danni già “bloccate” sotto i corpi sussidiari ai sensi della regola 16 sembravano disorientati su come rilanciare le discussioni con una base migliore […] Il programma di lavoro sulla mitigazione sembra bloccato, esistente solo come una serie di eventi di dialogo», riporta l’autorevole Earth Negotiations Bulletin dell’International Institute for Sustainable Development.

Sulla finanza climatica potrebbe ancora muoversi qualcosa

Ma sulla finanza le speranze che le cose si muovano rimane. Dal G20, la riunione dei venti Paesi più ricchi al mondo appena conclusasi a Rio de Janeiro, è arrivato un segnale in chiaroscuro. Che però invita i partecipanti alla Cop29 a trovare un accordo sul Ncqg e parla di «trillions», migliaia di miliardi, come scala. Molti a Baku iniziano poi a discutere di «contributi volontari», una formula che che potrebbe essere centrale.

Il Sud globale rifiuta di lasciare la Cop29 senza avere sul piatto abbastanza fondi per la transizione. Europa e Stati Uniti si rifiutano di stanziarli se la Cina non contribuirà. La Cina, a sua volta, si rifiuta di entrare nel novero dei Paesi donatori perché, nel contesto di queste trattative, è ancora ufficialmente classificata come Paese in via di sviluppo. Ma se si decidesse di includerla in forma volontaria – e non obbligatoria, come avviene per il Nord globale – allora si potrebbe sbloccare la catena di veti appena descritta. C’è poi lo scoop della testata statunitense Politico, che rivela come gli europei potrebbero accordarsi su una cifra tra i 200 e i 300 miliardi di dollari per la componente pubblica – cioè proveniente dalle casse statali – del Ncqg. Non un numero enorme, ma comunque un passo avanti nel negoziato.

L’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca ormai imminente, il disimpegno europeo sul tema – Ursula Von Der Leyen non ha nemmeno partecipato al summit – e le scarse abilità di mediazione della presidenza azera non aiutano. La spinta dei Paesi africani, latini e asiatici e l’intenzione della Cina di porsi sempre più come leader mondiale, invece, sì. Entro pochi giorni sapremo come andrà a finire questa storia.