Cop29 al rush finale, passi indietro sulla finanza climatica
Dalla nuova bozza della decisione finale della Cop29 la sensazione è che, sul tema della finanza climatica, prevalga la linea occidentale
Dopo giorni di attesa e con ore di ritardo rispetto a quanto annunciato, sui tavoli dei giornalisti presenti a Baku sono arrivate le nuove bozze di decisioni finali di Cop29, il summit negoziale delle Nazioni Unite sul contrasto al riscaldamento globale. Le analisi sono appena iniziate, ma dalla prima lettura la forte sensazione è che stia prevalendo la linea occidentale: pochi soldi e poco pubblico.
Cosa c’è scritto nella bozza del documento finale della Cop29 sulla finanza climatica
La decisione più attesa è quella relativa al New Collective Finance Goal (Ncqg), i flussi finanziari che dal Nord ricco dovranno andare al cosiddetto Sud globale per finanziare la transizione ecologica. Nella bozza appena pubblicata «si invitano tutti gli attori a collaborare per consentire l’aumento dei finanziamenti alle parti in via di sviluppo per l’azione climatica da tutte le fonti pubbliche e private ad almeno 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035». 1.300 dollari l’anno era esattamente la cifra richiesta dal G77, il blocco negoziale dei Paesi cosiddetti in via di sviluppo che include Africa, America Latina e buona parte dell’Asia.
Ma il linguaggio usato per riferirsi a questo obiettivo è debolissimo: ci si limita appunto a invitare le parti a stanziarli. Soprattutto, dentro questo obiettivo si conta di tutto: finanza privata, pubblica, filantropica, delle banche multilaterali. Di fatto, quasi nulla è davvero deciso. È notevole il fatto che, nelle bozze circolate ieri, il verbo usato fosse ben più forte: decide, si decide.
Nel paragrafo subito sotto si legge: «In questo contesto, si decide di fissare un obiettivo per l’estensione dell’obiettivo di cui al paragrafo 53 della decisione 1/CP.21, con i Paesi sviluppati parti che assumono la guida, a 250 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per le parti in via di sviluppo per l’azione climatica». Questa è la vera decisione – qui si usa quel verbo. E la cifra, 250 miliardi, è esattamente quella proposta dall’Europa secondo uno scoop di Politico di pochi giorni fa. A questa proposta il G77 aveva risposto con un lapidario «è uno scherzo?» pronunciato in conferenza stampa.
Friederike Roder, di Global Citizen, ha definito l’obiettivo di 250 miliardi di dollari insufficiente perché non rispetta quanto richiesto in termini di quantità e tempistiche. «Il peggio – ha aggiunto – è che i soldi ci sono e sono sul tavolo proposte che permetterebbero di aumentare i finanziamenti a fondo perduto facendo pagare chi inquina. Una tassa minima del 2% su 3mila miliardari sarebbe sufficiente a raccogliere 250 miliardi di dollari all’anno da concedere sotto forma di sovvenzioni. Meglio di quanto offre il testo, visto che l’obiettivo dei 250 miliardi non è nemmeno chiaramente definito». Rachel Cleetus, della Union of Concerned Scientists, ha tuonato: «Le nazioni ricche pericolosamente vicine a tradire l’Accordo di Parigi».
I punti non ancora chiari del nuovo obiettivo per la finanza climatica
Da nessuna parte, inoltre, si indica quanta della finanza debba essere pubblica. Questo vuol dire che mancano obblighi per gli Stati a contribuire; potenzialmente, i fondi potrebbero arrivare anche dal privato e dal filantropico. Il tutto in un contesto, quello Nazioni Unite, in cui a prescindere non esistono strumenti sanzionatori per chi non rispetta gli impegni presi.
Altri punti d’interesse sono la sparizione del paragrafo che indicava la necessità di dividere i contributi secondo emissioni e pil pro capite – una richiesta che avrebbe alleggerito eventuali responsabilità di Paesi come la Cina – e il passaggio su meccanismi di finanziamento «che non inducano al debito». Una frase gradita al G77, priva però di grandi effetti reali. Notevole anche il seguente passaggio: «Le esigenze di finanziamento delle parti in via di sviluppo riportate nelle promesse di riduzione delle emissioni (Ndc) sono stimate in 455-584 miliardi di dollari annui fino al 2030 e quelle dell’adattamento a 215-387 miliardi di dollari annui per il periodo fino al 2030». Insomma, si riconosce che i bisogni sono ben maggiori. Rimane inoltre l’invito per Paesi non obbligati legalmente a contribuire – come la Cina e i Paesi del Golfo – a inserirsi volontariamente nella platea dei donatori. Una formula attesa e tutto sommato gradita a Pechino.
Il testo finanziario è il più importante, ma non è l’unico. In quello sul Global Stocktake, lo stato dell’arte sulla riduzione delle emissioni globali, scompare qualunque riferimento ai combustibili fossili. Se fosse la versione definitiva, sarebbe un passo indietro rispetto alla Cop28 di Dubai e una vittoria dei Paesi produttori di idrocarburi. Mentre erano l’Europa e alcuni suoi alleati a insistere per un linguaggio più netto.
Il testo licenziato non è ancora una decisione: nelle prossime ore vedremo consultazioni delle Parti e forse una seduta plenaria. Ancora nessuno degli attori statali si è espresso. Ma la sensazione diffusa è che la bilancia penda per ora a favore dei Paesi ricchi e a sfavore di quelli in via di sviluppo.
Il contesto: cos’è il New Collective Quantified Goal
Il principale obiettivo del summit in corso a Baku è il raggiungimento di un consenso sul New Collective Quantified Goal (NCQG). Fuori dal burocratese dei negoziati, si tratta della cifra che i Paesi industrializzati promettono di stanziare in favore delle nazioni cosiddette in via di sviluppo. Un modo per rimediare almeno in parte alle emissioni rilasciate negli ultimi due secoli in larghissima parte da una ristretta cerchia di Stati. Nel 2009, una vita politica fa, si promisero 100 miliardi l’anno. Ma da subito emersero una serie di questioni.
In primis, promettere non significa dare. I 100 miliardi sono stati raggiunti davvero solo nel 2022 – si era concordato la linea rossa fosse il 2020 – e con enormi difficoltà. Poi c’è la questione dell’uso: non esiste una definizione univoca di finanza climatica, e men che meno un organo unico e autorevole che controlli la destinazione dei fondi. I casi di mala gestione – o direttamente di investimenti suppostamente verdi finiti su fossili e cementificazione – non si contano. Infine c’è la qualità dei fondi. Una parte importante del denaro arriva al Sud globale sotto forma di prestiti – di solito a tassi agevolati, ma comunque nuovi fardelli per Paesi spesso già terribilmente indebitati.
Le questioni aperte alla Cop29
Alla Cop29 il primo punto da chiarire sarà il quantum. Alcuni pezzi da novanta del G77 – l’alleanza che include la gran parte dei Paesi africani, latinoamericani e asiatici – chiedono di decuplicare la stima del 2009: mille miliardi l’anno. Il Nord globale si oppone, e risponde con la necessità di allargare la platea dei donatori. Il dito è puntato sulla Cina: Pechino è favorevole ad accordi ambiziosi sulla finanza climatica, ma non intende contribuirvi economicamente.
La Cina è ancora classificata come Paese in via di sviluppo in sede di Convenzione Onu sui cambiamenti climatici e, come tale, non ritiene di dover essere inclusa nella lista di coloro che dovranno aprire il borsellino. Stati Uniti e alleati – Europa, Regno Unito, Giappone, Svizzera – ritengono invece che il suo ruolo di seconda economia mondiale e primo emettitore assoluto le imponga di partecipare. Altro punto dolente è l’origine dei fondi – evidentemente legata al quanto. I Paesi ricchi sperano di attingere il meno possibile dai propri bilanci e invitano, piuttosto, a mobilitare risorse private tramite meccanismi di mercato. Perché questa sia l’opzione preferita delle capitali occidentali è chiaro, ma non aiuta a risolvere il problema principale: un investitore privato deve guadagnare dal suo investimento, prima che contribuire alla decarbonizzazione o allo sviluppo di una nazione in difficoltà.
Hanno collaborato Andrea Barolini, Lorenzo Tecleme e Daniele Guidi