Le fabbriche di armi e l’obiezione di coscienza sul lavoro
Lavoratori dell’industria bellica chiedono l’obiezione di coscienza sul lavoro. Tra testimonianze, lotte sindacali e proposte di legge per fermare la produzione di armi
Mentre la febbre del riarmo sta spingendo sempre più fabbriche nelle braccia della guerra, mentre il piano Rearm Europe e il nuovo target Nato per le spese militari al 5% trainano l’economia, la “working class” si mobilita. E dopo oltre 40 anni dalla prima proposta di legge, si torna a chiedere l’obiezione di coscienza sul luogo del lavoro.
La voce dalle fabbriche: Andrea, operaio di Tubiflex
Una delle coraggiose voci che si alzano dalle fabbriche di armi è quella di Andrea, delegato Fiom, giovane operaio in Tubiflex, azienda metalmeccanica a Mirafiori: «Produciamo tubi in metallo per vari settori, come automotive, portuale e soprattutto aerospazio e siamo fornitori di Leonardo – spiega Andrea –. Da alcuni anni assistiamo al processo di riconversione verso gli armamenti. Il nostro reparto aerospaziale ha visto crescere molto gli investimenti a discapito di quello automotive». La manutenzione ai macchinari è minima, mentre il carico di lavoro e psicologico sui lavoratori è notevole, sottolinea Andrea.
«Per opporci, stiamo cercando di ricostituire il collettivo di fabbrica che era presente fino ai primi anni Duemila. E che va al di là delle sigle sindacali – spiega l’operaio –. Stiamo cercando di ristabilire un dialogo sia interno alla nostra realtà che rivolto verso altre aziende esterne, cercando di fare rete, anche tramite iniziative ricreative». Un modo per fare rete non solo tra aziende di Torino e cintura o del Piemonte, ma di tutta Italia. Tra fornitori delle grandi aziende come Leonardo, Avio, Fincantieri.
«Vorremmo scambiare contatti, strumenti di lotta e avviare un percorso più ampio possibile – prosegue Andrea – sul modello di quello dei portuali. Per limitare e via via abbandonare la produzione di componenti bellici. Perché se la ricerca, la progettazione, la produzione e il trasporto di armi sembrano ormai una macchina inscalfibile e ben oliata, essa è in realtà molto delicata e può essere fermata, a cominciare dal basso, con il famose granellino di sabbia».
Obiezione di coscienza al lavoro: una battaglia che parte da lontano
Il 24 settembre 1970 circa ottocento operai delle Officine Moncenisio di Condove (Torino) approvarono all’unanimità una mozione contro la fabbricazione di armi. Il testo recitava così: «I lavoratori delle Officine Moncenisio, considerando che il problema della pace e del disarmo li chiama in causa, preoccupati dei conflitti armati che tuttora lacerano il mondo, diffidano la Direzione della loro Officina dall’assumere commesse di armi, proiettili, siluri o di altro materiale destinato alla preparazione o all’esercizio della violenza armata di cui non possono e non vogliono farsi complici, chiedono alle Organizzazioni Sindacali di appoggiare la loro strategia di pace, invitano caldamente i lavoratori italiani e di tutto il mondo a seguire il loro esempio di coerenti e attivi costruttori di pace».
Questa mozione ebbe molta eco. E da allora altri lavoratori iniziarono a rifiutarsi di produrre armi, chiedendo il cambio di mansione, spesso subendo licenziamenti o altre ripercussioni. Tra questi Elio Pagani, che in Aermacchi si dichiarò «obiettore alla produzione militare» e denunciò il traffico di armi della sua azienda verso il Sudafrica dell’apartheid. Anche grazie anche alla sua denuncia si arrivò alla legge 185/90 (ora sotto attacco). Negli anni Ottanta il Partito Radicale e Democrazia Proletaria presentarono due proposte di legge per il riconoscimento dell’obiezione alla produzione militare. Proposte che però non sono mai state approvate.
Nel 1988 in Aermacchi venne definita una piattaforma per la riconversione della produzione al civile, sostenuta da molti scioperi. Anche nell’azienda di mine Valsella, grazie all’operaia Franca Faita e alle sue compagne, si iniziò la lotta per la riconversione. A livello aziendale il sindacato intervenne per gestire con accordi specifici la tutela dei lavoratori che obiettavano. Elio Pagani ricorda: «Rivendicavamo l’introduzione di ammortizzatori sociali specifici per il settore bellico. Ad esempio, la riduzione degli orari di lavoro per evitare i licenziamenti, l’istituzione di un fondo per la riconversione al civile. In Lombardia la legge regionale n° 6 del 1994 istituì l’Agenzia Regionale per la riconversione dell’industria bellica a servizi civili. Ma ebbe vita breve». Nel 2002 Aermacchi fu acquisita da Finmeccanica (oggi Leonardo) e la riconversione si fermò. Con la “lotta al terrorismo” e le nuove guerre “per procura”, l’industria bellica è ormai tornata a trainare l’economia.
Dagli operai agli aeroportuali: chi rifiuta la produzione e il trasporto di armi
In mancanza di una legge sull’obiezione di coscienza, i lavoratori potrebbero essere tutelati già dall’articolo 2087 del Codice Civile. Che impone all’imprenditore l’obbligo di attivare «nell’esercizio dell’impresa, le misure (…) necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Tra cui appunto, la volontà dei lavoratori di non produrre strumenti di morte.
Anche la Costituzione all’art. 41 afferma come l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in modo da recar danno alla dignità umana. Ma questo solo in teoria. Attualmente i lavoratori si possono rifiutare di movimentare carichi militari se viene indetto uno sciopero. Ma non sempre si sa con anticipo la composizione del carico. Addirittura i lavoratori che segnalano i carichi sono ingiustamente a rischio di sanzioni.
A inizio luglio Luigi Borrelli, lavoratore aeroportuale e delegato Usb dell’aeroporto di Montichiari, vicino Brescia, è stato punito con una sanzione da parte dell’azienda presso la quale lavora, per aver divulgato la notizia del passaggio di missili diretti al Medio Oriente. Grazie alla sua denuncia Usb aveva indetto uno sciopero (il 25 giugno) bloccando il carico. Usb e gli avvocati del centro giuridico Ceing hanno lanciato il manifesto del “Lavoro che ripudia la guerra” e stanno lavorando ad una nuova proposta di legge per l’obiezione di coscienza nel luogo del lavoro.
Sindacati confederali e industria bellica: l’ambiguità di fondo
L’ambigua posizione dei maggiori sindacati (Cgil, Cisl, Uil) che dominano la rappresentanza nelle fabbriche non aiuta le rivendicazioni antimilitariste. Nel comunicato congiunto di fine luglio, i tre sindacati Fim-Cisl, Fiom-Cgil, Uilm-Uil, hanno lodato «i risultati positivi del primo semestre 2025 di Leonardo». Oltre a dirsi entusiasti «dell’acquisizione di Iveco Defence Vehicles da parte di Leonardo», e delle joint venture con Rheinmetall e Baykar (azienda turca di droni killer ndr), «le cui ricadute operative consentiranno di portare ulteriori vantaggi, sia dal punto di vista dei volumi che dell’occupazione».
Gli unici «requisiti irrinunciabili sono il mantenimento della governance, dei siti produttivi e la loro vocazione produttiva, dei livelli occupazionali e del mantenimento nel perimetro societario» senza «pregiudiziali» di sorta sul fatto che si stia producendo armi e mezzi di distruzione. Posizione che contrasta con le dichiarazioni pacifiste della stessa Cgil, che era peraltro tra i promotori della manifestazione a Roma del 21 giugno scorso.
Il mito dei posti di lavoro nell’industria militare
In realtà, il ricatto lavorativo non dovrebbe esistere, perché il militare non produce così tanti posti di lavoro. Come sottolinea perfino l’Economist in un recente articolo, «la produzione militare è talmente specializzata e automatizzata, che il riarmo creerà meno posti di lavoro rispetto a quelli persi a causa delle nuove tecnologie o della concorrenza straniera».
Cgil, Cisl e Uil esprimono soddisfazione perfino per la nuova unità produttiva di missili Mbda in costruzione a Pomigliano d’Arco. Mbda è il più grande consorzio di missili e bombe teleguidate in Europa, creato da Leonardo (25%), Airbus Group (37,5%) e Bae Systems (37,5%), coinvolto nel genocidio in atto a Gaza, in quanto costruisce componenti chiave per le bombe dirette a Israele. Il 7 agosto scorso le segreterie nazionali di Fim Fiom Uilm, hanno incontrato la direzione aziendale di Mbda Italia dichiarando che l’intesa raggiunta sulla nuova sede campana, “è frutto di relazioni industriali pienamente partecipative”. Il sito Mbda a Pomigliano d’Arco sarà operativo a partire da ottobre 2025.
Collettivo Gkn: dall’automotive a un piano di riconversione ecologica
Il collettivo Gkn è uno dei più lungimiranti esempi di operai organizzati a seguito di un licenziamento collettivo. Da ex operai di un’industria legata all’automotive in crisi, con la nascente cooperativa Gff hanno pronto da tempo un piano di riconversione ecologica delle produzioni: anziché produrre semiassi per automobili, produrranno pannelli solari e cargo-bike (un prototipo è già stato creato). Il progetto però è messo a rischio dall’ipotesi ventilata di destinare la fabbrica a un nuovo polo della logistica. “Solo la working class può fermare l’economia del genocidio e della guerra.
L’economia di guerra va di pari passo con la crisi climatica, la repressione, la cancellazione dei diritti sociali, l’impoverimento. Perché se i soldi pubblici si spendono in armi, non si spendono in riconversione ecologica né in servizi sociali” concludono dal collettivo.
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