Le vie del terrore sono infinite
Donazioni, droga e sequestri. Ma anche crowdfunding, tasse e petrolio. Il terrorismo si finanzia attraverso canali diversi. E i bilanci, in alcuni casi, sono a nove zeri. Come quelli delle multinazionali.
Ci sono gli attentati, ovviamente. Ma ci sono anche le attività di propaganda, reclutamento e proselitismo. E poi l’addestramento, gli stipendi, la comunicazione e i servizi sociali, che servono, eccome se servono, a consolidare la presenza e la forza di un’organizzazione su un territorio (come accade in Siria e in Iraq, per capirci). Tutto “pensato”, tutto pianificato, al di là di ogni delirio ideologico e di ogni spontaneismo. Perché le organizzazioni terroristiche, in definitiva, sono prima di tutto grandi “imprese”, spesso “multinazionali”, con divisioni organizzative e obiettivi strategici. E il cui funzionamento, è ovvio, richiede un continuo afflusso di denaro. La strategia di contrasto nota come follow the money, in definitiva, si basa proprio su questo presupposto e sulle relative ripercussioni. Come dire: colpisci i terroristi seguendo i loro soldi. Con tutte le difficoltà del caso.
Dal livello micro…
Non diversamente dalle attività criminali in genere, anche il terrorismo necessita di raccogliere e mettere in circolo i capitali nel modo più discreto possibile. Vale a dire tramite operazioni non tracciabili. Non è un caso che la stessa normativa internazionale di contrasto al fenomeno, basata sulle raccomandazioni del FATF (Financial Action Task Force o Groupe d’action financière, GAFI) si sia sviluppata, soprattutto dopo l’11 settembre, a partire dalla regolamentazione antiriciclaggio. Ma i problemi non mancano di certo, soprattutto quando i movimenti di denaro sono troppo esigui per essere rilevati. Un esempio? Gli assalti alla redazione di Charlie Hebdo e al nego- zio di prodotti kosher del gennaio 2015 (17 vittime), che, segnalano i servizi francesi, citati in un recente rapporto del FATF, sarebbero stati finanziati con un prestito da 6mila euro contratto nel circuito del credito al consumo, con la cessione di un’auto usata e con i proventi della vendita di alcuni beni contraffatti. Troppo poco, insomma, per rientrare nel novero di quelle operazioni “sospette” che la normativa impone di segnalare. «Quando gli importi coinvolti da singole cellule terroristiche o singoli individui sono particolarmente bassi o addirittura riguardano operazioni eseguite in contante, quindi senza filtro alcuno dagli intermediari, esse possono facilmente sfuggire al sistema di prevenzione disegnato dal FATF», rileva Leonardo Borlini, docente di Diritto dell’Unione Europea dell’Università Bocconi di Milano. Secondo un’indagine della Norwegian Defence Research Establishment, il 75% circa dei 40 attentati terroristici registrati in Europa tra il 1994 e il 2013 avrebbe avuto un costo unitario inferiore ai 10mila dollari.
… a quello macro
I numeri, insomma, non mentono. Ma al tempo stesso, è opportuno ricordarlo, raccontano solo una parte della storia. «Un singolo attentato può costare poche migliaia di euro, ma il mantenimento di una cellula e in generale l’attività di addestramento di un gruppo terroristico, al contrario, costano molto», spiega Sara De Vido, docente e studiosa di Diritto internazionale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e membro del Centro Studi europeo sulla prevenzione e repressione del riciclaggio di Roma. Un dato inequivocabile, che apre la strada a tutt’altro genere di analisi: quella macro. A realizzarla è stato proprio il FATF, che, in uno studio pubblicato lo scorso mese di ottobre (Emerging Terrorist Financing Risks), ha descritto i principali canali di finanziamento delle grandi organizzazioni terroristiche internazionali.
Ne emerge una pluralità di sistemi a partire dalle più classiche attività illegali: il traffico di droga (utilizzato, secondo il FATF, da Al-Qaeda, Isis ed Hezbollah così come dalle FARC in Colombia), sequestri (che tra il 2008 e il 2014, secondo il governo Usa, avrebbero portato oltre 220 milioni di dollari alle casse di Al-Qaeda, Isis e gruppi collegati) e le estorsioni realizzate a livello locale (dal PKK in Kurdistan, ad esempio) e su scala internazionale colpendo, in quest’ultimo caso, i migranti della diaspora (come evidenzia il caso del “pizzo” imposto ai membri della comunità cingalese in Canada da parte delle Tigri Tamil). Ma non manca l’utilizzo di profitti derivanti da operazioni economiche legittime e la ricezione di finanziamenti privati e di donazioni a organizzazioni no profit di copertura.
Un quadro complesso, che chiama in causa il sostegno di una parte del sistema bancario, complice volente o nolente del finanziamento al terrore. E che, in definitiva, pare aver scavalcato le metodologie del passato. «Un tempo le organizzazioni terroristiche erano finanziate essenzialmente dagli Stati – sottolinea Sara De Vido –, oggi, al contrario, si sostentano in larga parte grazie ai canali privati: le donazioni, anche cospicue, dei singoli, così come il mercato nero che è ovviamente difficile da monitorare».
Nuovi ostacoli
Il contrasto al mercato nero non rappresenta comunque l’unica difficoltà per le autorità antiterrorismo. Nell’elenco delle nuove minacce, ha sottolineato il FATF, ci sono le operazioni di finanziamento che bypassano i canali tradizionali, come il crowdfunding attraverso i social media e, come ricorda ancora Sara De Vido, «l’uso delle monete virtuali». Ma a preoccupare, in particolare, è anche lo sfruttamento del territorio. In ogni senso. A ottobre, un’inchiesta del Financial Times ha stimato in 600 milioni di dollari il ricavo annuale dell’Isis dallo sfruttamento del petrolio. Le tasse imposte alla popolazione nelle aree controllate dall’organizzazione, ha riferito a dicembre il New York Times, garantirebbero ogni anno altri 900 milioni di dollari di introiti. Un conto complessivo da 1,5 miliardi di dollari, quindi, cui vanno sommati gli incassi, più difficili da stimare, provenienti da altre operazioni come sequestri, donazioni, truffe al sistema banca- rio e traffico di reperti archeologici che sfuggono, scientemente, alla furia iconoclasta dei jihadisti. Fanatici quanto si vuole, certo. Ma non insensibili, a quanto pare, alle opportunità di business offerte dall’antiquariato.