Condividere la ricchezza: dall’obbligo religioso alla filantropia moderna
Dalla zakat islamica alla condivisione di Papa Francesco passando per il filantrocapitalismo di Bill Gates. In un mondo in cui la ricchezza è sempre più concentrata
Un paio di anni fa, in uno dei primi incontri interconfessionali di Fedi e Finanza presso la sede di Banca Etica a Roma, un giovane studente di economia della comunità musulmana, venuto al seguito dell’imam di Centocelle, intraprese un appassionato ragionamento sul valore e l’importanza della zakat islamica. Giustamente. La zakat è l’obbligo religioso di purificazione della propria ricchezza prescritto dal Corano. Ogni persona musulmana è chiamata a questo dovere, particolarmente durante il mese santo del Ramadan, per definirsi autenticamente credente.
Dalla Zakat islamica…
La zakat, etimologicamente legata al concetto di “purezza”, non è soltanto un meccanismo di redistribuzione economica, dunque. È il terzo dei cinque pilastri dell’Islam, serve a rendere lecita la propria ricchezza materiale, tramite l’erogazione di una porzione della propria disponibilità di capitale (il 2,5%) a sostegno alle comunità più svantaggiate della società islamica, secondo criteri ben definiti. Una pratica vecchia di 1400 anni insomma che, secondo la tradizione narrata dai califfi, ebbe un impatto considerevole sulla riduzione della povertà.
Chi più ha, più dona. Chi più dona, più contribuisce alla società e perciò è apprezzato dalla comunità religiosa. Così raccontava il giovane universitario, senza porsi la domanda sulla correlazione fra la quantità della ricchezza e il modo con cui è stata accumulata (sono in pochi a porsela questa domanda, anche tra i decisori politici e le élite religiose in genere). Del resto, è condivisibile l’entusiasmo per questa visione profonda di contratto sociale tra ricchi e poveri di una società, in cui ogni individuo condivide un dovere morale e normativo di aiutare il prossimo, mettendo mano alle proprie disponibilità (liquidità, azioni e investimenti, proprietà ed altri assets), e con linee di indirizzo sempre più rivolte alle aree di crisi internazionale
…alla filantropia
A questo “bene da condividere” dedica la pagina di copertina anche il numero di gennaio della rivista Forbes, con un uso forse un po’ strumentale dell’immagine di Papa Francesco, con riferimento alla ricchezza che diventa filantropia, e alla filantropia che sta cambiando il modo di concepire la gestione della cosa pubblica e di organizzare il proprio lavoro, aprendo un periodo di grande dinamismo e innovazione per l’intero settore. Del resto, sta nello spirito della Agenda dello Sviluppo 2030 chiamare direttamente in causa, in tempo di totale deregolamentazione, il protagonismo degli attori privati.
Qui ovviamente usciamo dal territorio dell’obbligo religioso islamico, e ci addentriamo nel modus operandi dell’elargizione volontaria che ha affiliazioni con la cultura religiosa, inutile negarlo, soprattutto con la tradizione protestante.
Al filantrocapitalismo moderno
L’imprenditore di successo sta fra i salvati, secondo l’interpretazione del calvinismo di Max Weber, da cui deriva una radice della galassia pentecostale che predica la “teologia della prosperità” (la ricchezza e il suo uso per ottenere la salvezza di Dio). E forse non è un caso che provenga da Seattle il monopolista della filantrocapitalismo moderno, il ricchissimo Bill Gates. Seattle è la culla della sola religione indigena del Nord America, la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni (spesso abbreviato in LDS: Latter Days Saints), cioè la chiesa dei Mormoni, nota per la sua concezione secolarizzata in materia di denaro (interessante però considerare che ogni mormone che vuole entrare a far parte della chiesa è tenuto a versarle il 10% dei suoi guadagni).
Un terreno scivoloso, quello della filantropia profit, o strategica che dir si voglia, tanto in voga, che reinterpreta individualisticamente i valori solidaristici per operare, con metodologie manageriali e di mercato, una sofisticata ristrutturazione del capitalismo su scala globale. Il sociologo Daniel Bell, nella sua penetrante disamina della cultura capitalistica, mostra la radicale contrapposizione fra la tendenza al profitto personale, frutto della mentalità industriale, e le decisioni orientate al bene comune che sono indispensabili per la società. Vero è che grazie alla tecnologia e all’immediatezza della comunicazione digitale il mondo si è fatto più piccolo e interconnesso, sicché è sempre più difficile ignorare le sfide globali della povertà, della disuguaglianza, del progressivo esaurimento delle risorse ambientali. Ma la contraddizione insanabile tra ricerca sfrenata del guadagno e interesse generale sta alla radice delle ricorrenti crisi economiche, tra le quali la crisi del 2008 è solo la più eclatante per dimensione.
Oxfam: la ricchezza dei ricchi aumenta di 2,5 miliardi al giorno. Colpa di sistemi fiscali ingiusti
Siamo veramente convinti che nel tempo della smodata crescita della ricchezza, e della sua concentrazione nelle mani di una cerchia sempre più esigua di persone, prevalga una maggiore e sincera propensione a dare, a donare, nella logica della restituzione alla società? Forse che i pochi, ricchissimi, si sono resi conto di aver aperto un baratro nel quale essi stessi rischiano di precipitare? Oppure questa vivace spinta ad agire, a trovare soluzioni, trasformando il denaro in potere anche politico, non è che un intervento mirato a indurre un cambiamento profondo della governance in modo da salvaguardare proprio il capitalismo? “Il capitalismo inclusivo e compassionevole” di cui tutti parlano, e che ormai promuovono anche le Nazioni Unite, salva l’anima forse, ma non intacca minimamente i nodi che producono precarietà, disoccupazione, scempio sociale umano. La cultura dello scarto, tanto per usare i termini della teologia di Papa Francesco.
Doveva essere un leggero mantello per Max Weber, questa ascesi del capitalismo, e invece è diventata un ingranaggio ineluttabile, “una gabbia di durissimo acciaio”. Vale la pena tenerlo a mente, nel momento in cui tutte le fedi, nessuna esclusa, si collocano dentro un processo culturale di mercato e di finanza globale. Magari, il processo di purificazione merita una nuova attenzione.