Fare impresa in carcere è difficile. Molti vincoli e (senza aiuti) costi troppo alti
Il provveditore della Lombardia Luigi Pagano racconta le difficoltà delle imprese carcerarie. Per ora niente e-commerce, ma arriverà presto. Forse con Amazon
Per un’impresa non è facile lavorare in carcere. I detenuti-lavoratori sono sottoposti a limitazioni e obblighi che possono pregiudicare o, se non altro, rendere meno produttiva l’impresa carceraria. Lo spiega a Valori Luigi Pagano, una lunga carriera nella gestione illuminata delle carceri italiane, oggi direttore del Provveditorato per la Regione Lombardia dell’Amministrazione Penitenziaria. «Un lavoratore in carcere incorre in tutta una serie di situazioni che possono essere pregiudizievoli per l’economia d’impresa – spiega – L’obbligo di fare i periodi d’aria, i colloqui coi magistrati e con gli avvocati, le traduzioni obbligatorie per motivi di giustizia: momenti che creano poco rendimento per l’azienda, anche se importanti per il detenuto».
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Avete dati sullo stato di salute economica di queste realtà nelle carceri?
«Non abbiamo effettuato alcuno studio, osserviamo nella pratica se le imprese carcerarie resistono. Un’analisi economico-finanziaria potrebbe avere utilità ai fini di un controllo che prevenga il rischio di fallimento di queste imprese, con tutte le conseguenze negative che ne seguirebbero. Va anche detto che di imprese pure nelle carceri italiane non ne abbiamo molte, imprese che riescano a misurarsi con il mercato.
Una delle più rappresentative è il ristorante In Galera del carcere di Bollate, che si è creato una nicchia particolare, lavorando sia con la bontà dei cibi che con l’interesse che desta un locale del genere posizionato in prigione.
Un caso particolare. Per le altre imprese carcerarie è un po’ più difficile. Si reggono spesso con i contributi che arrivano dalla legge Smuraglia, e con il fatto che le cooperative possono ricevere in comodato gratuito degli spazi, abbattendo le uscite. Altrimenti il costo del lavoro in carcere, con tutte le problematiche che ci sono, può risultare difficilmente sostenibile».
Manca l’e-commerce dei prodotti realizzati dai detenuti…
«Abbiamo diversi negozi che commercializzano i prodotti realizzati in carcere. Quello a Milano in via dei Mille, ad esempio, che raccoglie e vende i manufatti delle case di reclusione Lombarde e anche di qualcuna fuori dalla regione. C’è un negozio simile anche in Piemonte. Cominciamo ad avere perciò dei punti vendita nei quali trovare ciò che viene prodotto all’interno delle carceri, soprattutto se si tratta di alimenti, ma non solo. E credo che presto arriveremo anche allo shopping online. C’è una ragazza che ha realizzato dei distributori per la vendita di borse prodotte in carcere all’aeroporto di Bari, ma perché non pensare anche a stabilire dei rapporti con Amazon».
A cosa è dovuta la bassa presenza femminile tra i lavoratori degli istituti di pena?
«La minor presenza di donne nell’ambito di queste attività dipende innanzitutto dal fatto che le donne sono in netta minoranza in carcere (sono circa il 10% rispetto alla popolazione maschile). E poi perché molti di questi lavori nascono negli spazi delle sezioni maschili, che consentono di avere disponibilità di maggiore manodopera, come ad esempio è accaduto per i call center. C’è però una sartoria occupata solo da donne, e delle pelletterie. Ed esistono anche situazioni miste in cui lavorano uomini e donne. Va però detto che, dovendo puntare alla massima razionalizzazione del lavoro, queste iniziative nascono più facilmente nelle sezioni maschili».
Si parla soprattutto di cooperative, come mai?
«Per tutta una serie di possibilità di accedere a contributi la forma giuridica più semplice e frequentata nell’ambito di queste iniziative è quella della cooperativa. Ci augureremmo che ci fossero più imprese, pensando ad esempio a rami d’azienda, ma le società hanno necessità che costringerebbero ad attrezzare diversamente gli istituti. I quali in molti casi non sono ancora pronti per ospitare aziende con molti lavoratori. Inoltre c’è un problema di spazi, che ci auguriamo terranno in conto i penitenziari del futuro».
Tra istituti per adulti e minorili ci sono differenze sostanziali?
«Credo che le dinamiche siano sostanzialmente le stesse, pur essendo due mondi diversi. Il comune denominatore resta sempre lo stesso, ovvero il carcere. Certo per quanto riguarda i minori è necessario che il lavoro abbia una componente anche di formazione».