Onufrio: «Sì al gas per la transizione. No a nuovi impianti, non è decarbonizzazione»
Il direttore di Greenpeace denuncia: «L’uscita dal carbone rischia di diventare un favore al comparto gas. Anche il sindacato asseconda l'industria»
Il gas deve servire solo per la fase di transizione. Costruire nuove infrastrutture diventerebbe una scelta di lungo termine, in contraddizione con una vera decarbonizzazione. È questa, in sintesi, la posizione di Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia, che, senza troppi giri di parole, etichetta come “bufala” la necessità di puntare a tutta forza sul gas. O meglio, su nuovi impianti per distribuirlo, per sopperire alla transizione durante l’uscita dell’Italia dal carbone (il cosiddetto phase-out), fissata nel 2025 dalla SEN 2017 e ribadita dal Piano nazionale integrato energia e clima (PNIEC 2018). Una posizione netta, espressa alla luce di uno scenario che mira ad un abbandono progressivo di tutte le fonti fossili, gas incluso, per la produzione di energia elettrica (e termica).
Anche Greenpeace quindi ritiene il gas un passaggio necessario per la decarbonizzazione?
«Tutta la vicenda ha una base di verità, ma è anche in buona parte una bufala. La parte di verità è che, sicuramente, nella fase di transizione energetica ci sarà bisogno di utilizzare gas. Questo è presente anche negli scenari di Greenpeace. Il problema nasce nel momento in cui si vogliono costruire nuove infrastrutture per il gas. Perché allora invece di un ruolo nella transizione si cerca una centralità a lungo termine del gas». Una critica dura quella di Onufrio espressa dopo la riunione al ministero dello Sviluppo economico (il 17 aprile 2019) in cui istituzioni e proprietari delle ultime centrali a carbone in Italia (Enel, A2a ed Ep Produzione) hanno iniziato a parlare di phase-out.
Perché dunque si parla di nuove infrastrutture per il gas?
«Un Paese serio – prosegue Onufrio – dovrebbe capire esattamente di quanto gas ha bisogno la transizione verso la decarbonizzazione, e se le infrastrutture che già possiede sono sufficienti. Ma questo calcolo non l’ha ancora fatto nessuno.
Il fatto è che c’è una corsa a occupare territorio e a costruire nuove infrastrutture per consentire – in particolare all’Eni, ma a tutti i produttori di gas – di uscire (forse) dal petrolio, ma sfruttando a lungo termine il mercato del gas. Questo è il loro obiettivo vero. Mentre la decarbonizzazione significa anche eliminare progressivamente i consumi di gas».
Anche la CGIL sembra però sposare questa linea…
«È una conferma del fatto che il sindacato rimane spesso una parte del problema e non della soluzione. Motivo per cui Greenpeace è uscito dalla Coalizione Clima. I sindacati difendono i posti di lavoro qui e ora. Prima era il Sulcis, poi hanno avuto da ridire sul phase-out del carbone. In questo ruolo non sono una forza di cambiamento, ma vanno a traino dell’industria (dominante).
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E invece è evidente che la Sardegna va collegata alla rete elettrica. Quindi ha ragione Terna (che vorrebbe posare un nuovo cavo tra Sicilia e Sardegna, ndr) e ha torto la CGIL, se questa è la posizione del sindacato. La soluzione del futuro sarà elettrificare in maniera pesante tutti i consumi energetici, aumentare l’efficienza negli utilizzi, e produrre elettricità solo da fonti rinnovabili. E se questo ragionamento sulle infrastrutture del gas è valido in senso generale, lo è ancora di più per la Sardegna, con una popolazione numericamente limitata».
È pensando a una prospettiva nazionale a lungo termine?
«Quando si parla transizione verso un obiettivo di decarbonizzare al 2050, vanno considerati i tempi di ritorno di investimenti infrastrutturali. Ciò che sta succedendo oggi nella transizione energetica è descrivibile come una faglia sismica che sta rovesciando e tenderà a rovesciare sempre di più i rapporti tra il settore estrattivo e chi produce elettricità. Non è un caso che ENEL abbia cambiato politiche, perché chi produce elettricità può farlo anche con le rinnovabili o può inserirsi nei servizi di rete e per l’efficienza.
La politica energetica italiana nella storia è stata dominata dall’ENI, e chi estrae petrolio e gas rappresenta il problema vero. Se cambia mestiere, deve spiegare ai suoi azionisti il percorso di decrescita che intende compiere e qual è la dinamica di un mercato che va a chiudersi grosso modo attorno alla metà del secolo. Oppure cambia il proprio rapporto con le utility elettriche, cioè entra in competizione diretta, come osserva il prof Alberto Clò in un suo recente intervento.
Le utility saranno in futuro sempre più fondamentali, diventando sempre più importante il trasporto a propulsione elettrica, ad esempio, ed entreranno in maniera decisa nel settore termico attraverso le pompe di calore. Andiamo in quella direzione. Che è sostenibile solo se la base energetica è fornita dalle fonti rinnovabili di energia».
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Invece cosa sta succedendo?
Si vede nel Piano nazionale integrato energia e clima, dove si prevede un vero e proprio “compromesso fossile”. Perché le rinnovabili rimangono praticamente ferme fino al 2025 (vedi grafico), anno in cui è prevista l’uscita del carbone dalla produzione elettrica, il cui posto verrà preso dal gas che così – in un quadro di consumi a crescita bassa o nulla – può lasciare spazio alle rinnovabili. Lasciandole crescere al rallentatore – invece di farle correre come sarebbe necessario – di fatto per altri 5 anni!
Oggi le rinnovabili sono bloccate non dall’assenza di incentivi ma dalla burocrazia e dall’assenza di decreti. E questo blocco è iniziato ad essere efficace dopo il 2013: il boom delle rinnovabili negli anni precedenti aveva danneggiato il settore del gas naturale, facendo scendere in modo netto la produzione di elettricità da gas. In un grafico tratto da un articolo su Rivista Energia (Il “nuovo” capacity market italiano) si vede come, da quando sono state bloccate le rinnovabili, la quota del gas è risalita.
Con le politiche previste dal PNIEC non si arriverà mai a decarbonizzare l’b. Se poi limitiamo lo sguardo alla Sardegna, che senso ha costruire un metanodotto per portare gas a una regione che invece potrebbe – e dovrebbe – diventare l’esempio più avanzato delle tecnologie verdi dell’Italia?».
Dal punto di vista occupazionale qual è il bilancio del confronto tra carbone gas e rinnovabili?
«Tra le fonti fossili il gas è quello che occupa meno. Il carbone è l’unica che consente un livello importante di occupazione. Qual è il problema politico? Che i posti di lavoro nel fossile hanno un nome e un cognome, sai dove stanno e sai se si tesserano oppure no al sindacato. Per sua natura, invece, le rinnovabili prevedono una occupazione più dispersa. E, per massimizzare la quota italiana di installatori e manutentori di impianti dispersi sul territorio, ci vogliono politiche industriali attive. Negli Stati Uniti già oggi il solare occupa più persone dell’industria del carbone e del settore oil&gas messi assieme. Oggi che la transizione è appena iniziata e che governa un certo Trump!».
L’opzione di ritardare il phase-out in Sardegna non è sul tavolo?
«Terna ha sottolineato l’esistenza del problema relativo alla Sardegna. Ma il problema nasce da una domanda: le politiche necessarie per arrivare al phase-out sono state accelerate in tempo oppure no? Non è che Terna è un imprenditore indipendente e fa ciò che gli pare… I piani energetici nazionali sono sempre stati fortemente influenzati da attori come ENI e in altra misura da soggetti come ENEL. Questo viene fotografato sia dalla SEN che dal governo del cosiddetto “cambiamento” col suo PNIEC, in piena continuità con la SEN 2017: l’Italia come “hub del gas” europeo. Una “linea ENI” diciamo».
C’è quindi un centro d’interesse politico ed economico?
«Certo c’è un interesse – anche legittimo s’intende – a posizionarsi nella transizione e ad occupare il “carico di base” elettrico – cioè la domanda minima costante che oggi è coperta da carbone, idroelettrico e importazioni dall’estero –. E dunque questo è il motivo per cui si sente ancora parlare di fare nuovi impianti a gas a ciclo combinato, per sostituire quella quota. Ma avviene senza un dibattito trasparente, e senza che si dimostri quale sia la curva di minime emissioni di gas a effetto serra. E queste strategie hanno l’appoggio del governo. Tanto che lo definirei un governo di “resistenza fossile”».
Si può fare a meno della metanizzazione della Sardegna che del cavo di connessione con la Sicilia?
«La metanizzazione non ha nessuna ragion d’essere, a mio parere. Bisogna andare verso l’elettrificazione della Sardegna, la quale potrebbe e dovrebbe diventare un laboratorio verde in cui accelerare la posa dei cavi e moltiplicare l’installazione delle fonti rinnovabili. Ha ragione Terna sul fatto che, oltre al cavo da Nord, la Sardegna deve essere connessa da un cavo a Sud.
Se pensiamo allo scenario del futuro noi avremo una grandissima produzione di energia elettrica dal centro sud, e la Sardegna potrebbe essere uno nodo strategico. Cosa che potrà in una certa misura modificare tradizionale equilibrio tra Nord e Sud (più ricco di fonti rinnovabili come eolico e solare). E questo forse infastidisce qualcuno.
La Sardegna può invece diventare fulcro di questa trasformazione verso un sistema rinnovabile. Potrebbe diventare un luogo dove si produce e si esporta energia (e magari si attraggono imprese per usarla in loco), invece di importare gas dal Nordafrica. Investire per realizzare nuovi impianti che poi, con la decarbonizzazione, andranno chiusi è una follia. Con questa posizione il sindacato guarda al passato e non al futuro».