Addio Mugabe, il sovranista monetario che uccise lo Zimbabwe
Presidente perenne, profeta dell’autarchia, padre dell’iperinflazione: è morto Robert Mugabe, l’uomo che ha distrutto l’economia di un intero Paese
Robert Mugabe non è più di questa Terra. Se ne è andato oggi a 95 anni, gli stessi raggiunti a suo tempo da Nelson Mandela, il leader a cui avrebbe voluto assomigliare e di cui divenne, al contrario, una grottesca nemesi politica. Mugabe è morto, abbasso Mugabe.
Leader dell’indipendenza, spietato padre-padrone dello Zimbabwe, tragicomico distruttore di una delle più floride economie africane. È stato questo e molto altro, lui uomo dei record disgraziati conquistati e imposti al suo Paese. Sette lauree, trentasette anni di potere ininterrotto, una ventina abbondante di zeri imposti al tasso di inflazione nel suo picco massimo. E poi tutto il resto. Come una barzelletta che gronda sangue e piange miseria.
Sovranista ante litteram
A voler fare una facile battuta potremmo persino definirlo un mentore teorico dei sovranisti contemporanei, no euro da strapazzo e imbecilli da tastiera assortiti. Insulti, autarchia e monetarismo da fumetto. I capitali? Ce li facciamo da soli: basta stampare moneta, no? In termini tecnici funzionava così, e poco importa che il prezzo di un chicco di grano raddoppiasse ogni singolo giorno come nella famigerata leggenda degli scacchi.
La sovranità economica è una legittima ambizione: ma si paga in dollari – quelli veri – ovvero in fiducia e fondamentali di sistema. Chi non lo capisce è invitato oggi a guardare all’Argentina. E se non basta può mettere mano ai libri di storia, all’epopea dello Zimbabwe dello scorso decennio e a quei grafici che sembrano caricature.
Mugabe era nato e cresciuto sotto il dominio coloniale in quella che allora si chiamava Rhodesia. Aveva studiato, viaggiato, insegnato e appreso gli ideali di indipendenza. Il carcere, una laurea, la lotta di liberazione contro la minoranza bianca al potere. Poi la leadership, nel ruolo di premier, e la solita parabola del despota. Si dice che la campagna di repressione nella guerra contro il suo rivale Joshua Nkomo abbia causato 20mila morti tra i civili nei primi Anni 80. La successiva riconciliazione gli avrebbe spianato la strada verso la presidenza e il controllo della nazione. Il peggio, però, doveva ancora venire.
Dall’esproprio alla miseria
All’alba del nuovo millennio Mugabe lanciò il maxi esproprio dell’agroindustria nazionale, gestita al tempo da 4mila discendenti dei coloni europei. Avrebbe dovuto essere l’inizio di una grande redistribuzione popolare. Finì, come previsto, in una maxi elargizione di terra ai boiardi di Stato, militari e fedelissimi del presidente senza alcuna esperienza nel settore. I poveri restarono tali. Nel 2005 il governo promise loro case decenti avviando la demolizione delle baraccopoli. Ma non andò oltre. Il Paese si ritrovò in un attimo con 700mila nuovi senzatetto. L’economia, un tempo prospera, fu sostanzialmente azzerata. L’inflazione prese a salire vertiginosamente. Le sanzioni internazionali fecero il resto.
«…Domenique mi spiega che a Dziva, nella zona che stiamo attraversando, il sistema idrico è talmente danneggiato che i liquami spesso si infiltrano nelle tubature ed escono dai rubinetti delle abitazioni» scrive sul suo diario Joanna, uno dei cinquecento operatori di Medici Senza Frontiere nello Zimbabwe, il 2 marzo 2009.
«La gente beve letteralmente i propri escrementi». E ancora, 9 marzo: «Oggi faccio visita al più remoto dei nostri centri per la reidratazione. Qui incontro Maria e Zodwa, due donne sulla cinquantina. Lavorano come volontarie, senza nemmeno un rimborso. Restiamo a parlare della vita e delle loro difficoltà. Mi dicono che ora il problema maggiore per la gente è l’impossibilità di pagare le parcelle imposte dagli ospedali. Il mese scorso, il sistema sanitario pubblico del Paese ha iniziato ad esigere pagamenti in dollari Usa. «Qui non sanno cosa siano i dollari Usa», dice Maria con enfasi. «Non li hanno mai visti. Non sanno nemmeno che colore abbiano!». «Ma allora – chiedo – che cosa fa la gente?» Lei scuote la testa. «Può solo morire».
Inflazione al 90 sestilioni per cento
Morivano, sì. Ma da miliardari, anche se l’unità di misura – lo Zimbabwean dollar – valeva meno della carta straccia. Il Fondo Monetario Internazionale aveva cessato da tempo di erogare prestiti a Mugabe in attesa che il Paese risolvesse le sue pendenze. La disoccupazione era salita al 94%. Nel febbraio del 2007 l’indice dei prezzi segnava una crescita mensile di 77,6 punti percentuali. Bazzecole. Appena un anno e mezzo dopo l’ultimo dato ufficiale si attestava a quota 89.700.000.000.000.000.000.000%. Quasi 90 sestilioni per cento. Più o meno il 100% su base giornaliera.
Fu allora che Mugabe accettò controvoglia di fare un passo indietro dando il via a un governo di coabitazione con il leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai, dopo l’ennesima controversa vittoria elettorale. Lasciò a quest’ultimo la carica di primo ministro ma non abbandonò la poltrona di presidente. «Solo Dio può rimuovermi» disse una volta. In realtà ci avrebbero pensato quasi dieci anni dopo i militari. Il 21 novembre 2017.
Lo Zimbabwe non si è più ripreso
La tempesta si è arrestata alla fine dello scorso decennio grazie all’introduzione di valuta estera e di un regime di cambio fisso. Nel 2015, la Banca centrale ha avviato la riconversione in dollari americani delle vecchie banconote a un tasso concordato di 1 a 35 milioni di miliardi. Ma gli effetti del ciclone Mugabe sono ancora evidenti. Nello scorso autunno l’indice annuale dei prezzi ha superato il 20%, un livello che non si vedeva da anni.
Oggi, nota Bloomberg, più del 90% della forza lavoro è esclusa dall’economia formale, le infrastrutture cadono a pezzi mentre i blackout elettrici e la carenza di liquidità sono tuttora problemi irrisolti. Il livello di inflazione resta un mistero: il governo ha sospeso per sei mesi la pubblicazione di statistiche ufficiali.