Emergenza coronavirus, i tagli alla sanità che non bisognava fare
Posti letto per terapia intensiva dimezzati, oltre 8.000 medici e più di 13.000 infermieri in meno. Così l'Italia è in emergenza sanitaria, impreparata a sopportare l'urto del Covid19
«Io resto a casa». A tarda sera del 9 marzo arriva l’annuncio del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte di un nuovo decreto, il terzo in meno di una settimana, che trasforma l’Italia in un’unica zona arancione, con la limitazione di mobilità a tutti i cittadini dell’intera penisola. La conferma di quanto l’emergenza sanitaria stia mettendo a dura prova l’Italia e il suo servizio sanitario nazionale. Un sistema tra i migliori in Europa e al mondo, fortemente indebolito però, negli ultimi quindici anni, dalla carenza di investimenti.
Mancano strutture ospedaliere adeguate per affrontare la crisi, personale medico, paramedico e apparecchiature terapeutiche.
La conferenza stampa del premier Conte: «Io resto a casa»
Dimezzati i posti letto per terapia intensiva e casi gravi
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il nostro Paese ha dimezzato i posti letto per i casi acuti e la terapia intensiva, passati da 575 ogni 100 mila abitanti ai 275 attuali. Un taglio del 51% operato progressivamente dal 1997 al 2015, che ci porta in fondo alla classifica europea. In testa la Germania con 621 posti, più del doppio (qui sotto l’infografica interattiva dell’Oms sui posti letto per casi acuti persi nei diversi Paesi dal 1997 al 2015).
Mentre le cronache raccontano del personale sanitario allo stremo, occorre ricordare che la sanità pubblica nazionale ha perso, tra il 2009 e il 2017, più di 46 mila unità di personale dipendente. Oltre 8.000 medici e più di 13 mila infermieri, secondo la Ragioneria di Stato. Cifre che da sole possono far comprendere come gli ospedali e i pronto soccorso, già sotto pressione al nord, potrebbero non essere in grado di reggere la diffusione dell’epidemia. Specie nelle regioni del centro e del sud, ancora meno attrezzate e con minore personale. Come denunciato dal presidente dell’Associazione Medici Dirigenti, (Anaoo), le strutture ospedaliere hanno perso, infatti, 70 mila posti letto, solo negli ultimi 10 anni.
Il futuro dell’Italia è nelle nostre mani. Facciamo tutti la nostra parte, rinunciando a qualcosa per il bene della collettività. In gioco c’è la salute dei nostri cari, dei nostri genitori, dei nostri figli, dei nostri nonni. Ho appena firmato il decreto #iorestoacasa pic.twitter.com/Cagtzf7hnQ
— Giuseppe Conte (@GiuseppeConteIT) March 9, 2020
Misure straordinarie per colmare carenze gravi
Diminuire drasticamente il contagio attraverso le straordinarie misure di contenimento varate con i tre decreti del 4, 8 e 9 marzo dal governo Conte è, quindi, nell’immediato, l’unica iniziativa possibile per contrastare il collasso del sistema e le sue possibili conseguenze.
(Qui sotto la mappa del contagio in Italia: dati della Protezione Civile in open data)
Secondo l’ultimo annuario statistico del ministero della Salute disponibile, nel 2017, il servizio sanitario nazionale disponeva di circa 191 mila posti letto per degenza ordinaria. Solo 3,6 posti letto ogni 1.000 abitanti, che scendono a 3,0 ogni 1.000 abitanti, dedicati ai casi acuti, confermando la media indicata dall’OMS.
La maggioranza è in strutture pubbliche, mentre il 23,3% è collocato nelle strutture private accreditate. Scendendo nel dettaglio, però, complessivamente, sono solo 5.090 posti letto di terapia intensiva (8,42 per 100.000 abitanti, quindi 0,00842 ogni 1.000 persone), 1.129 posti letto di terapia intensiva neonatale (2,46 per 1.000 nati vivi), e 2.601 posti letto per unità coronarica (4,30 per 100.000 abitanti).
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Inversione di rotta: il coronavirus aumenta i fondi alla sanità
Non a caso, quindi, le misure straordinarie annunciate dal ministro della Salute Speranza, in Consiglio dei Ministri lo scorso 7 marzo , e dallo stesso presidente Conte nella conferenza stampa del 9 marzo, vanno in controtendenza rispetto alla parola «tagli».
Prevedono nuove assunzioni, l’incremento di aree di emergenza all’interno degli ospedali e l’acquisto delle apparecchiature necessarie per contrastare gli effetti del Coronavirus.
Iniziative che, se confermate, dovranno colmare, quindi, le gravi carenze già note agli addetti ai lavori. Denunciate, nell’indifferenza generale, già un anno fa dall’Associazione Salute Diritto Fondamentale, fondata dalle ex ministre della Salute Rosy Bindi e Livia Turco e dall’ex senatrice Nerina Dirindin.
Tagli o mancati investimenti?
Eppure, secondo l’ultima relazione della Corte dei Conti al Parlamento con la legge di bilancio approvata il 30 dicembre 2018, sono state incrementate le risorse da destinare al fabbisogno sanitario. Dai 114,4 miliardi di euro stanziati nel 2019, ai 116,4 miliardi di euro per il 2020, fino ai 117,9 miliardi previsti per il 2021. Ma, come si legge nella stessa relazione, gli investimenti, proprio da parte degli enti locali, sono stati ridotti del 48% tra il 2009 e il 2017. E con essi le risorse umane, in calo del 5,3%.
Nel 2017, scrive la Corte dei Conti, in base ai risultati d’esercizio degli enti sanitari, la spesa sanitaria è stata pari a 1.888 euro pro capite. Con un divario ampio tra nord e sud. Tutte le regioni meridionali, ad eccezione del Molise (2.101 euro pro capite), spendono meno della media nazionale. In particolare la Campania (1.729 euro), la Calabria (1.743 euro), la Sicilia (1.784 euro) e la Puglia (1.798 euro). Mentre la spesa pro capite più alta si registra nelle Province autonome di Bolzano (2.363 euro) e Trento (2.206 euro), in Molise (2.101 euro), Liguria (2.062 euro), Valle d’Aosta (2.028 euro), Emilia Romagna (2.024 euro), Lombardia (1.935 euro), Veneto (1.896 euro).
L’Italia spende in sanità meno di Germania, Francia e Regno Unito
Globalmente, la spesa sanitaria sostenuta dallo Stato italiano, nel 2017, è stata pari al 6,6% del Pil. Valore inferiore di circa tre punti percentuali a quella in Germania (9,6%) e Francia (9,5%), di un punto percentuale rispetto al Regno Unito. E di poco superiore a quella di Spagna (6,3%), Portogallo (6,0%) e Repubblica Ceca (5,8%).
Sempre secondo la Corte dei Conti, i dati Ocse relativi all’arco temporale 2000/2017 mostrano, soprattutto a partire dal 2009, la progressiva perdita di peso relativo del comparto sanitario sul Pil, rispetto a quello nei maggiori paesi europei. Se nel 2000 Francia e Germania spendevano per il servizio sanitario due punti percentuali di Pil in più rispetto all’Italia (rispettivamente 7,5%, 7,7% e 5,5%), nel 2017 il divario è cresciuto a tre punti percentuali.
Anche l’indicatore della spesa pro capite mostra il sottodimensionamento relativo di quella italiana. Nel 2017 la spesa pubblica italiana (espressa in dollari a parità di potere di acquisto) è stata pari a 2.622 dollari, ossia inferiore del 35% a quella francese (4.068 dollari) e del 45% a quella tedesca (4.869 dollari), con un divario che cresce, rispetto a quello dell’anno 2000, rispettivamente di 10 e di 15 punti percentuali.
Ssn tra i migliori in Europa, ma pochi investimenti
Quello di cui non si è tiene conto sottolinea a Valori, Nerina Dirindin, docente di Economia pubblica e di Scienza delle finanze presso l’ Università di Torino e presidente del Coripe, è che «la sanità italiana è stata sacrificata più del resto del settore pubblico. Dal 2010 al 2016 la spesa del Ssn è rimasta, in valori assoluti, sostanzialmente immutata. Mentre la spesa primaria, al netto degli interessi sul debito pubblico, è cresciuta dello 0,5% all’anno. Senza tenere conto dell’inflazione. E ciò è avvenuto, nonostante il nostro sistema sanitario sia tra i meno costosi del mondo sviluppato».
La conferma arriva anche dall’Ocse. Il nostro servizio sanitario pubblico resta, per qualità ed efficacia delle prestazioni sanitarie, uno dei migliori in Europa e al mondo. Ma gli indicatori qualitativi e quantitativi dei servizi sanitari regionali, disegnano un sistema con molte disuguaglianze. Differenze che spiegano, per esempio, i flussi di mobilità sanitaria diretti, prevalentemente, dal sud verso le regioni del nord.
Mentre dall’altra parte, segnala sempre la relazione delle Corte dei Conti, la decrescita degli investimenti ha rallentato l’ammodernamento delle apparecchiature terapeutiche. E aumentato il degrado delle infrastrutture, che è mediamente maggiore al Sud rispetto al Nord, con ricadute anche sulla qualità delle cure.
Diritto alla salute diviso tra Stato e regioni
La salute è diritto tutelato dall’articolo 32 della Costituzione italiana. Ma il complesso delle norme che regolano il sistema sanitario per garantire a tutti i cittadini, l’accesso universale all’erogazione equa delle prestazioni sanitarie, è sempre più complesso. Intanto, con la riforma del titolo V della Costituzione, varata nel 2001, la responsabilità della tutela della salute è stata ripartita tra lo Stato e le regioni. È lo Stato che ha il compito di determinare i livelli di assistenza che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e di vigilare sulla loro effettiva erogazione.
Le regioni, invece, programmano e gestiscono in piena autonomia la sanità nell’ambito territoriale di loro competenza, avvalendosi delle aziende sanitarie locali (Asl) e delle aziende ospedaliere. Ma è sempre lo Stato che finanzia la sanità, con le risorse provenienti dalla fiscalità generale che vanno a costiture il Fondo sanitario nazionale (Fsn). Da esso si determinano annualmente le risorse necessarie per regione e provincia autonoma. A cui si aggiungono le varie forme di compartecipazione alla spesa sanitaria da parte degli assistiti. Come i servizi a pagamento e i ticket. Oltre che le entrate proprie delle amministrazioni regionali.
Monitoraggio Livelli essenziali di assistenza: in base alla Griglia LEA nel 2017 raggiungono o superano il punteggio minimo accettabile (160) 16 Regioni. Forniti per la prima volta i punteggi di tutte le regioni.
Leggi qui ⤵ https://t.co/sybijGJBxX pic.twitter.com/z8ZV9S9o6U— Ministero della Salute (@MinisteroSalute) January 10, 2019
Sanità diseguale: costi e qualità cambiano in ogni regione
Tutto ciò dovrebbe avvenire nel rispetto di quelli che sono i cosiddetti LEA, i livelli essenziali di assistenza. A cui tutte le regioni si dovrebbero attenere per garantire un uguale livello di servizi e prestazioni sanitarie. Ma così non è, tanto che dal primo gennaio 2020, è entrato in vigore un nuovo sistema di monitoraggio, varato dal ministero della Salute, che le amministrazioni regionali dovranno rispettare.
Nel 2017 il 42% del totale delle risorse finanziarie per la sanità è stato assorbito dalle regioni del Nord. Mentre il 20% è andato a quelle del Centro, il 23% al Sud, il 15% alle autonomie speciali.
Nonostante le forti azioni di controllo della spesa, ci sono ancora regioni regioni soggette ai cosiddetti « Piani di rientro». A loro vanno risorse dal fondo sanitario nazionale per il 46%. Intanto, come l’emergenza sanitaria da Coronavirus ha drammaticamente rivelato, occorrerà tornare a investire su tutta la sanità pubblica, al nord come al sud. Secondo l’Associazione Salute Diritto Fondamentale , solo per mettere in sicurezza gli ospedali e le strutture sanitarie territoriali, nelle zone ad alto rischio sismico, occorrerà stanziare almeno 32 miliardi.
#coronavirus, il vademecum "Cosa fare in caso di dubbi", realizzato con @istsupsan e @ECDC_EU, risponde alle domande e alle preoccupazioni più frequenti e affianca le raccomandazioni per la prevenzione.
Scarica il vademecum⤵️https://t.co/gbkEpYbdAH#COVID2019 #COVID19italia pic.twitter.com/9RtomMogSK
— Ministero della Salute (@MinisteroSalute) March 9, 2020