Tutto cominciò a Cengio, ma era una bonifica impossibile
Dagli esplosivi ai coloranti. Nei 117 anni di vita inquina acque e terreni in profondità. Una vera bonifica appare subito impossibile. Sarebbe costata 5 miliardi di euro
“Il Mattino” ha pubblicato un articolo (il 19 gennaio 2020) sulla presunta bonifica dell’Acna di Cengio, che mi costringe all’ennesimo intervento contro lo “sbianchettamento” della memoria in tema ambiente, fidelizzato, come sono, al bridging the gap (colmare il gap) intergenerazionale come imperativo morale. Anche per evitare il facile alibi italiota (e non solo), tanto in voga, «se avessi saputo».
1987: la prima legge sulle bonifiche dei siti contaminati
Vi ritrovo citata una persona che sempre molto apprezzai, l’ingegner Ilvo Barbiero. Lo conobbi in Val Bormida a cavallo tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90. Presiedevo il Comitato Tecnico-Scientifico Rifiuti del Ministero dell’Ambiente e il Ministro pro-tempore, Giorgio Ruffolo, aveva voluto che scrivessi il primo articolo di Legge nazionale in materia di siti contaminati ad elevato rischio di crisi ambientale, che istituisse l’obbligo per le Regioni di predisporre ed approvare i relativi piani di bonifica delle aree inquinate (Legge 441/87), specificando contenuti e struttura di tali piani all’interno della successiva Legge 475/88 .
Con il D.M.185 del 16/05/89 avevamo poi indicato i criteri e le linee guida per l’elaborazione e la predisposizione in modo uniforme dei piani da parte delle Regioni, a partire dalla esigenza di elaborare uno specifico ed accurato “Censimento dei siti potenzialmente contaminati”.
Un confronto internazionale sui metodi per bonificare
Al fine di prepararmi circa quel tema del tutto nuovo, unico italiano, avevo partecipato ad un workshop ad Amburgo in cui il Governo tedesco e l’EPA (Environmental Protection Agency, l’ente statunitense per la tutela dell’ambiente) si confrontavano sul come gestire i fanghi e sedimenti contaminati prelevati con dragaggio periodico dai fondali di quel porto. Negli USA , infatti, si stava approntando lo strumento ‘SuperFund’ per risanare situazioni di grave contaminazione.
Bonifica dei siti contaminati – Conferenza di Walter Ganapini (direttore Arpa Umbria)
…snaturato in Italia
Purtroppo – come spiegai in una conferenza dell’Arpa Umbria nel gennaio del 2018 (il video è qui sopra) – l’evoluzione successiva della questione “bonifiche” in Italia, a causa di un approccio normativo razionale e di sapore europeo, è stata via via “denaturata”. E infine snaturata da chi voleva trarre illegittimo profitto diretto (dallo smaltimento illegale di rifiuti industriali fino alla “Terra dei Fuochi”) e/o indiretto (con i mancati costi di risanamento, la messa in sicurezza e la bonifica di porzioni di territorio pesantemente inquinati). Con gravi rischi sanitari per le popolazioni.
Il primo intervento di bonifica all’Acna di Cengio
Grazie alle Leggi citate, il ministro Ruffolo decise di intervenire a partire dal sito Acna di Cengio, individuato perché, pur in presenza di discipline settoriali vetuste (come quella riguardo le emissioni in atmosfera), le analisi avevano verificato una fuoruscita di un composto cancerogeno riconosciuto (beta-naftilammina) da uno degli oltre 100 camini di quella vecchia fabbrica.
Una fabbrica nata per la produzione e lo stoccaggio di materiale bellico e quindi localizzata, come altre (Aulla, Bussi, Papigno-Terni, Monti della Tolfa, ecc) in aree interne ad orografia complessa che ne rendessero difficile l’individuazione e l’aggressione da parte di forze ostili .
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Oltre un secolo di inquinamento
La storia dell’Acna inizia infatti nel 1882, quando la Sipe (Società italiana prodotti esplodenti) apre a Cengio uno stabilimento per la produzione di esplosivi destinati alle Forze Armate.
Già a partire dal 1909 si osservano i primi effetti degli scarichi inquinanti riversati nel fiume.
Tanto da indurre il Pretore di Mondovì ad emanare una ordinanza che dichiarava non utilizzabili, perché inquinati, i pozzi di acqua potabile di tre Comuni situati lungo il corso della Bormida a valle di Cengio.
Dalle armi ai coloranti
Nel 1912 lo stabilimento venne rilevato dall’Acna, che vi avviò la produzione di coloranti: dal 1938 le acque del fiume non vengono più utilizzate per l’irrigazione.
Nel 1986 i Sindaci della Valle Bormida presentano un esposto alla Magistratura nel quale accusano Acna di scaricare nel Bormida inquinanti in concentrazioni superiori a quelle previste dalla allora vigente Legge Merli.
Lo stabilimento Acna nell’ultimo periodo di attività produceva circa 30.000 tonnellate all’anno di intermedi organici, in particolare derivati dalla naftalina (naftalenici) e dal benzene (benzenici), utilizzando processi di solforazione, fusione alcalina, nitrazione, amminazione, condensazione, per produrre betanaftolo, acido bon. tobias, isogamma, alfamminoantrachione, ptalocianina, metamminofenolo, ammine, intermedi usati per la produzione di coloranti, pigmenti, prodotti per l’agricoltura, farmaceutici, gomma.
Gli ostacoli (politici) agli interventi di bonifica
Acna è in territorio ligure, ma ogni scarico impattava sulla contermine Val Bormida, piemontese, con crescente allarme di agricoltori e cittadini, che organizzarono il primo Comitato, di cui l’ingegner Barbiero è stato il riferimento.
Immediati ostacoli all’intervento sul sito vennero posti a Ruffolo dal confronto con le due Regioni, a partire dalle strutture del suo Partito, il PSI. In una accalorata assemblea pubblica ad Acqui, il ministro dovette spiegare che non era semplice comprendere come membri della Internazionale Socialista potessero rifiutare di confrontarsi, sedendosi da pubblici Amministratori allo stesso tavolo a livello locale.
Nessun sistema di depurazione
Sul piano tecnico, venne istituita una Commissione, presieduta dal professor Loprieno, genetista dell’Università di Pisa, di cui feci parte, assieme al professor Enrico Rolle (IRSA-CNR e ‘La Sapienza’). In ripetuti sopralluoghi verificammo come la fabbrica fosse priva di adeguati sistemi di abbattimento di reflui gassosi e di depurazione dei reflui liquidi (fatto salvo un impianto di trattamento con carboni attivi). Erano perciò presenti, all’interno del perimetro, 13 bacini di stoccaggio, contenenti circa 300.000 metri cubi di reflui salini.
Rividi poi situazioni simili in ogni altra area su cui lavorai, da Priolo-Augusta fino a Marghera e Manfredonia, prima di essere estromesso dalle Commissioni dal nuovo DG che ne assunse competenza a metà ’90, Clini.
Una bonifica impossibile: troppo costosa
Iniziammo ad elaborare prime misure tecniche di mitigazione degli impatti principali. Ci rendevamo però perfettamente conto che sotto quel perimetro c’erano 2,5 milioni di metri cubi di suolo e rocce fortemente contaminate dai rifiuti dei processi produttivi della chimica pesante che avevano sostituito la produzione bellica .
Bonificare il sito nel senso di “ripristinarlo/riportarlo in pristino” asportando le matrici contaminate per trattarle in impianti adeguati (peraltro assenti in Italia) avrebbe implicato uno sforzo finanziario pubblico improponibile, di oltre 10.000 miliardi di vecchie lire (5 miliardi di euro).
Peraltro non era pensabile che il settore chimico nazionale potesse farsene carico, essendo purtroppo già in forte crisi.
Da “bonifica” a “messa in sicurezza”
Sarebbe perciò stato necessario operare in logica non di “bonifica” , ma di “messa in sicurezza” del sito per evitare il trasferimento di inquinanti da superficie e sottosuolo verso la Bormida.
Cominciò così la riflessione sulla posa di una corona circolare di palificazioni in cemento , con funzione di contenimento dei liquami da dilavamento. E sull’esigenza di impermeabilizzare la superficie per evitare che acque meteoriche percolassero incrementandone i flussi.
La riconversione dei processi produttivi
Tralascio ogni ulteriore dettaglio tecnico per focalizzare il nodo che ritenevo centrale nella mia riflessione di ambientalista: la gestione della messa in sicurezza doveva aver luogo a fabbrica chiusa (come chiedevano a gran voce molti, più o meno verdi), o riconvertendone i processi, chiedendo alla proprietà di investire in produzioni ambientalmente compatibili, per qualche anno, mentre si lavorava per attuare le misure di mitigazione individuate dalla Commissione.
Il ruolo dei lavoratori
La prima opzione non mi convinceva affatto: in quella fabbrica lavoravano 700 persone, 70 delle quali erano già impegnate in attività ambientali (tra cui il Dr. Elefante poi DG di Arpa Liguria). Oltre all’evidente ricaduta occupazionale, il nodo era che il sito, una volta dismesso e abbandonato, non sarebbe stato gestito. E allora chi meglio dei lavoratori esperti del sito, opportunamente formati ed aggiornati su tecniche inerenti la decontaminazione di matrici ambientali, avrebbe potuto assicurare tale gestione del ‘post-mortem’? Quale Amministrazione locale, quale USL avrebbe potuto farsi carico con risorse e competenze adeguate della necessaria manutenzione dell’unico depuratore in dotazione (e del suo raddoppio, essenziale per trattare le decine di migliaia di metri cubi di sali inquinati stoccati nei bacini superficiali), del controllo dei serbatoi e delle pipelines sopra terra e interrate, degli apparati elettrici essenziali? Ricordo una discussione in tal senso tra Fabio Mussi, all’epoca responsabile del settore ‘Ambiente’ del PDS, e l’anziano Samuele Colombo, storico dirigente Montedison.
Dietro le bonifiche gli immobiliaristi
Nel frattempo al ministro Ruffolo era succeduto Ripa di Meana e alla fine Acna venne chiusa. Mi si riferì a posteriori come, durante una delle prime edizioni della ‘Fiera delle utopie concrete’, uno spettacolo fosse stato dedicato al Ganapini servo di Acna perché non ne voleva la chiusura.
Non mi sono mai sottratto al confronto con interlocutori sociali, dai comitati alle associazioni, esplicitando i miei dubbi ed il mio “approccio progressivo” al tema “bonifiche” in un Seminario nazionale di Legambiente su quelli che venivano definiti i SIN (Siti di Interesse Nazionale), sottolineando anche come dietro le richieste di chiusura sic et simpliciter, senza un vero progetto di decontaminazione e le risorse necessarie per attuarlo, si celassero spesso interessi molto “immobiliaristici” (fino all’ultimo orribile caso del quartiere S. Giulia a Milano).
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Siti contaminati: una questione sottovalutata
Ho poi solo seguito a distanza il seguito della vicenda, fino alla proclamata bonifica. Mi sono attenuto al milanese “ofelè fa l’tò mistè” (detto milanese per cui ognuno dovrebbe fare solo quello che sa fare, ndr), per cui, non avendo adeguata informazione circa tale “bonifica”, ho tenuto sospeso il giudizio anche quando, per riaccendere l’attenzione sulla folle sottovalutazione italiota dei siti contaminati come timing bomb (i cui effetti anche finanziari in termini di sanzioni comunitarie sono oggi contenuti grazie all’azione del generale Vadalà come Commissario alla partita), ho con amici aiutato a far nascere la ReteComuniSIN, per chiamare al protagonismo gli Enti locali nel momento in cui, anziché affrontare seriamente il problema anche per tutelare la salute delle popolazioni, il legislatore declassava molti siti da ‘Interesse Nazionale’ a ‘Interesse Regionale’ .
L’articolo de “Il Mattino” e le parole dell’ingegner Barbiero mi hanno fatto tornare alla mente i dubbi d’allora su quanto definito “bonifica” di Cengio, oltre a mettere a fuoco un tema caldissimo quale il trasferimento di rifiuti industriali pericolosi verso la discarica di Pianura, in Campania, anch’essa a me ben nota.
Chiudere correttame l’Acna: impossibile anche per gioco
Riflettendo sulla vicenda Acna, però ,vorrei qui sottolineare quanto fosse difficile, anche in campo ambientalista, sfuggire a logiche conflittuali spesso prive di adeguato supporto conoscitivo, in ambito sia tecnico che normativo. Esemplare al riguardo fu, nel corso di un Convegno Nazionale di Legambiente a Lettomanoppello, organizzato da Antonio Ferro, un gioco di simulazione che proposi per verificare l’effettiva possibilità di conseguire a breve la chiusura dell’Acna di Cengio, nelle condizioni giuridiche date e nel pieno della polemica citata.
Ricordo che nel gioco Renata Ingrao rappresentava i comitati piemontesi, che da tempo si battevano contro lo stabilimento, Gianfranco Amendola agiva da Giudice, io rappresentavo l’azienda (ovviamente). Non ricordo chi rappresentasse, tra gli attori coinvolti, i Sindacati e la realtà ligure, notoriamente contrari alla chiusura.
Dopo ore di simulazione neppure Amendola riuscì a chiudere la fabbrica, in base alle vigenti normative. Era quindi chiaro che la decisione sarebbe stata squisitamente politica.
E ciò, a mio avviso, la diceva lunga su quanto dovessimo ancora lavorare per essere sempre più autorevoli nella gestione di tali situazioni e dei relativi conflitti.
Costringere l’azienda alla riconversione verde
A me pareva più ambientalmente conveniente costringere l’impresa (nel caso di allora la Montedison del “filo ambientale” Gardini) a misurarsi, in quel sito, con altri sentieri produttivi compatibili con l’ambiente (ad esempio recuperando e sviluppando filoni di “chimica verde”, di trasformazione di legno e altre biomasse, facilmente reperibili all’intorno di Cengio, quando l’impianto veniva allora alimentato con naftalene ed altri derivati della trasformazione di carbone dalla Cina).
Non mi andava di esigere solo chiusura senza un percorso preciso di risanamento, essendo quest’ultimo assolutamente imprescindibile.
Sapevo e so cosa voglia dire in termini di efficienza degli interventi operare su di un sito in abbandono produttivo e privo di un futuro edilizio attraente e mi preoccupava un’Italia dove la chimica diventasse mero elenco di cimiteri dell’ambiente e dell’occupazione.
* Ambientalista, docente, scienziato, membro onorario del Comitato Scientifico dell’Agenzia europea dell’ambiente; cofondatore di Legambiente ed ex presidente di Greenpeace Italia