Mayday! La generazione che scopre la precarietà e si ribella

Il 1 maggio 2001 a Milano si è tenuta la prima Mayday parade, una festa e una mobilitazione della prima generazione precaria

Manfred Von Richthofen, il leggendario Barone Rosso, è stato una delle principali figure della prima guerra mondiale. Un asso dell’aviazione. L’«asso degli assi», con 81 vittorie aeree. Quando gli inglesi sorvolavano la Francia per andare a bombardare le linee tedesche dovevano affrontare il Fokker Dr.I pilotato dal temibile Barone Rosso e la sua flotta. «Venez m’aider» era il grido di soccorso. Che i piloti inglesi non sapevano pronunciare correttamente e storpiavano in «mayday».

Dopo la guerra, nel 1927, l’operatore radio Frederick Stanley Mockford propose di usare questo termine come segnale di soccorso: una parola chiara, inequivocabile, facilmente pronunciabile.

Ed è nel 2001 che Mayday diventa la richiesta di aiuto di un’intera generazione.

mayday 2001
Il manifesto della prima Mayday parade del 2001

Il 24 giugno 1997 era stata approvata la legge 196, il cosiddetto pacchetto Treu, che ha introdotto importanti cambiamenti nel mercato del lavoro italiano. L’obiettivo dichiarato dal legislatore era quello di contrastare la disoccupazione, rendendo meno rigido il mercato del lavoro, attraverso la crescita di flessibilità in alcune forme contrattuali. L’effetto, però, è stato quello di creare il fenomeno del precariato.

«Noi siamo stati la prima generazione a provare sulla propria pelle l’esperienza di entrare nel mondo del lavoro con contratti precari», dice Zoe Romano, attivista milanese.

In quegli anni Zoe finiva un master in scienza e tecnologia dei media e, come progetto di fine percorso, aveva creato una webzine chiamata Chainworkers. «I nostri genitori ci chiedevano quand’è che avremmo trovato un lavoro stabile e noi non sapevamo come spiegare che non era un nostro problema, era il mondo in cui vivevamo». E i sindacati? «Ci guardavamo intorno. Cercavamo di capire se c’era qualcuno che parlava di noi. Se i sindacati stavano facendo qualche riflessione. E abbiamo trovato una grande distanza: non solo i temi non ci riguardavano, ma anche il linguaggio che usavano era distante dal nostro». La Mtv generation, si chiamavano scherzando. Abituati a una fruizione rapida dei contenuti, al multimediale, all’ibridazione di toni e stili. Internet iniziava a fare capolino nelle modalità di relazione.

Sono gli anni di Seattle. Il testo di riferimento di quella generazione era No logo di Naomi Klein

Da webzine Chainworkers diventa un collettivo che ha la sua casa al Bulk, spazio occupato milanese. «Lì con noi c’era anche un hacker space», ricorda Zoe, «col quale sono nati inevitabilmente fitti scambi: corsi di html, di linux… ». Ma presto l’obiettivo è diventato portare fuori dalla Rete, tra le persone i temi e i linguaggi elaborati.

«Le prima azioni che facevamo come Chainworkers consistevano nel portare dei volantini molto semplici poco prima dell’orario di chiusura dei fast food, dei negozi delle grandi catene globali che, più di tutti, all’epoca sfruttavano lavoro precario. Parlavamo con le persone. Avevamo preparato un decalogo – “Le dieci cose che non sai, ma che sono tuoi diritti”». Per esempio? Che il cartellino andava timbrato prima di indossare la divisa. Banale, ma non scontato.

Al Bulk Chainworkers incontra altre anime: quella dei rave, quella delle parate antiproibizioniste e delle street parade. E nasce così l’idea di festeggiare il 1 maggio in un modo diverso, «non necessariamente contro i sindacati confederali, che facevano la loro manifestazione al mattino. Ma portando un punto di vista diverso, con un linguaggio più vicino al nostro», dice Zoe. Un modo di abitare la strada festoso, con carri e musica, ma anche molto politico, portando alla luce la condizione di vita di una generazione.

Il 1 maggio 2001 a Milano nasce la Mayday parade. Cinquemila persone, quell’anno, sfilarono nel centro della città. Un numero che sarebbe cresciuto di anno in anno, fino ad arrivare ai 50mila del 2004. Per poi coinvolgere altre città città europee. Nel 2005 la parata si svolgeva in contemporanea in 10 diverse città e Mayday diventava Euromayday.

Contenuti politici, approccio pop, e un immaginario ricchissimo, vulcanico, eclettico

Un linguaggio politico anche nella forma e non solo nei contenuti. È il caso, emblematico, di San Precario. L’idea nasce durante un’assemblea Precog (precari e cognitari) a gennaio 2004. «Non sapevamo più a che santo votarci», scherza Zoe. L’immagine di San Precario è presa in prestito da un artista canadese, Chris Woods, che aveva realizzato alcuni dipinti ambientati in un fast food. Uno dei templi della nuova precarietà. «C’è molta similitudine tra i valori espressi dai brand e la religione. Quando inizi a lavorare per una di queste catene ti viene dato un manuale di “prescrizioni”: come indossare la divisa, come sorridere, come parlare. Lavorare diventa quasi un rituale religioso», dice Zoe.

«San Precario è il nostro santo protettore. Insieme a lui chiediamo continuità di reddito, una casa, l’accesso ai servizi, ai saperi e ai trasporti, i diritti che sono riassunti nei cinque assi della precarietà», si legge sul sito da cui è possibile scaricare il santino e le preghiere da rivolgere al santo.

Immaginario eclettico e alla continua ricerca di ibridazioni. E così, per coinvolgere altri gruppi e centri sociali nel percorso di organizzazione della Mayday, nel 2005 nascono gli Imbattibili. Sembrano supereroi, ma Superflex, Ricercatoro Seduto, Spider Mom e gli altri siamo tutti noi che ci destreggiamo quotidianamente nelle nostre vite precarie. Ciascun gruppo aveva prodotto e stampato le propria icona che veniva distribuita nel corso della manifestazione, con l’invito a collezionarle tutte. Così come le carte della Precariomanzia e la lotteria in cui la precarietà trasforma la vita se lavoratrici e lavoratori non si organizzano.

Gli attivisti di Chainworkers si rendono conto presto che c’erano modi diversi per parlare di precarietà. Per chi lavorava in un fast food o un call center, il lavoro era pensato come qualcosa di temporaneo. Un passaggio verso altro. E per questo i lavoratori non mostravano interesse a organizzarsi. Nel settore dei lavori intellettuali e creativi, invece, l’obiettivo era “fare carriera”. E quindi sindacalizzarsi non era visto di buon occhio. Contesti diversi, stesso risultato. Ma è per denunciare la precarietà nell’ambito dei lavori creativi che San Precario si trasforma in Serpica Naro, giovane stilista anglo-giapponese. Che non esiste. Ma la cui sfilata, durante la Settimana della moda a febbraio 2005 ha attirato a frotte giornalisti e giovani stilisti. E la precarietà, nel mondo della moda, non si ferma alla fase di creazione e, anzi, investe con violenza l’intera filiera, fatta in larghissima parte di sfruttamento ai limiti dello schiavismo, come spiega Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti nel nostro podcast.

Vent’anni dopo la prima Mayday il precariato è ormai la condizione stabile di vita per la quasi totalità delle persone

E cosa è rimasto di quell’esperienza? «Soprattutto Serpica Naro ha indicato a molte e molti di noi una strada. Ci siamo resi conto che oltre a fare battaglie sindacali per migliorare le condizioni di lavoro occorreva creare nuovi tipi di lavoro. Essere pagati di più e in condizioni migliori da un grande brand della moda, ma partecipare al sistema della moda per come è oggi – un sistema che sfrutta le persone e le risorse naturali – non ci interessava». E poi le lotte dei lavoratori della logistica, dei rider. A Milano persone che hanno partecipato al percorso della Mayday hanno dato vita oggi a GigaWorkers, «un’intelligenza collettiva che indaga le trasformazioni del mercato del lavoro e della metropoli, dalla GigEconomy all’economia delle piattaforme».


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