Anziane per il Clima rilancia a un anno dalla storica sentenza della Cedu

Oggi le Anziane per il Clima celebrano e rilanciano con un documentario. Abbiamo intervistato Norma Bargetzi-Horisberger

Dopo la sentenza del 9 aprile 2024 davanti alla Cedu © Miriam Künzli / Greenpeace

Un anno fa, il 9 aprile 2024, si scriveva a Strasburgo una pietra miliare nella storia delle climate litigation, della tutela dei diritti umani e della giustizia climatica. Pronunciandosi sul caso “Anziane per il Clima e altri vs Svizzera”, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) emetteva una sentenza di condanna per lo Stato elvetico per violazione dei diritti umani. Per non aver preso, cioè, misure sufficienti contro la crisi climatica, in violazione dell’Articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. «Fu un’emozione fortissima, una gioia intensa», dice Norma Bargetzi-Horisberger, del Comitato dell’associazione Anziane per il Clima. Che celebra oggi la ricorrenza con la proiezione a Berna di “Trop chaud”: documentario che racconta la storia della causa.

Siete consapevoli di aver fatto qualcosa di cui si leggerà sui libri di storia, come oggi già si legge di Greta Thunberg?

Che la nostra causa potesse fare la storia, lasciando un segno capace di produrre conseguenze per le generazioni future, era la nostra speranza. Mi ha fatto piacere sapere, ad esempio, da studentesse di giurisprudenza dell’Università di Padova e di altri atenei, che della nostra causa si parla nei corsi di diritto internazionale. È una grande soddisfazione, dopo un percorso lungo otto anni. Con molte di noi, che siamo tutte intorno ai 70-75 anni di età, che già avevamo alle spalle percorsi di attivismo, tante cause, lotte, anche sconfitte. Ma siamo sempre andate avanti.

Qual è stato il momento più difficile per Anziane per il Clima?

I rifiuti alle nostre istanze che abbiamo ricevuto dalle autorità svizzere, prima di rivolgerci alla Cedu, sono state grandi delusioni. Ma uno dei momenti più difficili è arrivato dopo la sentenza, l’estate scorsa, quando sul nostro caso ci sono stati dibattiti nel Parlamento svizzero. Alcuni, devo dire, anche molto brutti. Al punto che mi sono chiesta come persone che hanno dimostrato tale ignoranza possano rappresentarci.

La Svizzera ha ostacolato fin da subito l’applicazione della sentenza: a che punto siamo oggi?

Il Consiglio federale e il Parlamento svizzeri hanno detto di non essere disposti a riconoscere la sentenza. Recentemente, sarà forse l’effetto Trump, rappresentanti politici hanno addirittura invocato l’uscita dall’Accordo di Parigi. Ma è un atteggiamento che il Comitato dei ministri del consiglio d’Europa, che supervisiona l’esecuzione delle sentenze Cedu, non può lasciar correre. Al Comitato la Svizzera ha dovuto produrre una serie di informazioni. Anche noi abbiamo prodotto delle considerazioni e un rapporto di sostegno è arrivato anche da oltre trenta Ong.

Il 7 marzo scorso il Comitato dei ministri ha riconosciuto alla Svizzera di aver fatto qualcosa, ma ha giudicato le risposte ancora insufficienti, per cui a settembre ci sarà una nuova verifica. Una delle questioni centrali, che anche noi avevamo sollevato, è che la Svizzera pur avendo firmato l’Accordo di Parigi non ha un carbon budget: quando lo farà, e dovrà farlo, si vedrà che le emissioni di CO2 sono molto superiori a quanto appare. Perché bisogna considerare anche quelle legate alle merci importate e agli investimenti finanziari, campo quest’ultimo in cui com’è noto la piccola Svizzera è una grande potenza.

Posto che ogni climate litigation fa storia a sé, quali fattori che hanno aiutato la vostra causa ritenete possano aiutare anche in altre cause?

Innanzitutto è stata decisiva la coesione del nostro Comitato. Ci ha dato forza il numero crescente di socie e sostenitori: oggi Anziane per il Clima ha più di 3mila associate, con un picco di crescita registrato già dopo l’udienza davanti alla CEDU a marzo 2023, e oltre 1.800 sostenitori. Il nostro team legale, poi, è stato fantastico. Un supporto fondamentale è venuto, fin dall’inizio, da Greenpeace Svizzera, che ci ha molto aiutato anche finanziariamente. Perché le spese legali di un percorso così lungo sono immense.

Assai importante poi è il networking: ci sono cause che si possono affrontare solo in modo collettivo e l’essere connesse con altre associazioni, in Svizzera e nel mondo, aiuta a farlo. In Italia abbiamo avuto scambi intensi con chi sta portando avanti climate litigation, come ReCommon e l’associazione A Sud Onlus. E con Amnesty International Italia, che ci ha invitato all’assemblea annuale.

Infine è stato molto importante anche potersi appoggiare su voci del mondo scientifico. Ci aveva contattato anche la Pontificia accademia delle scienze, ma con grande dispiacere non siamo riusciti a incontrarci perché era un periodo in cui eravamo oberate. Ha contato anche la copertura sui media, che all’inizio del percorso invece non ci consideravano. Ma conta soprattutto la presenza sul territorio: bisogna partecipare a incontri, dibattiti, mettersi in gioco personalmente. Come faremo anche nelle proiezioni del documentario, che avranno sempre momenti di dibattito.

Com’è nata l’idea di realizzare “Trop chaud”?

È stata un’idea dei registi. Ci eravamo incontrati a Zurigo nel 2023 per realizzare un video, promosso da Greenpeace, in vista della sentenza. Poi, appassionatisi, hanno deciso che avrebbero fatto questo film, gratuitamente. È la dimostrazione che quando credi in quello che fai e lo fai con passione, diventi contagioso. Penso che raccontare la nostra storia attraverso un documentario, che andrà nelle sale cinematografiche, nei cine-club, e nei prossimi mesi sarà reso accessibile a tutti, sia molto importante. Del resto in tante nell’associazione Anziane per il Clima siamo madri e nonne, per cui raccontare storie è parte di noi. E questa è una storia bella e importante da raccontare, perché dà speranza.