La Commissione europea vuole “salvare” le aziende extra-Ue dalle norme sulla sostenibilità

Nella frenesia della semplificazione, vacilla anche l’obbligo di report di sostenibilità per le aziende extra-Ue che operano in Europa

Le imprese extra-Ue sono soggette a normative ambientali e sociali più permissive © Jezperklauzen/iStockPhoto

Se l’Unione europea impone normative severe su sostenibilità e trasparenza e il resto del mondo no, significa che le imprese del Vecchio Continente si trovano svantaggiate rispetto ai colossi esteri? Per come sono scritte queste norme, la risposta è no. Perché includono una clausola di extraterritorialità: un’azienda extra-Ue che opera nell’Unione, e rispetta determinati requisiti di dimensione e fatturato, deve sottostare agli stessi obblighi delle sue concorrenti europee.

Descritta così, è una misura pienamente logica perché garantisce un’equa concorrenza. Ma, nella frenesia della semplificazione a tutti i costi, anche questo principio basilare rischia di venire meno. È quanto si scopre leggendo un documento di inizio ottobre che porta la firma della Direzione generale per la stabilità finanziaria, i servizi finanziari e l’Unione dei mercati dei capitali (DG Fisma).

Procede l’iter del pacchetto Omnibus

Per ricostruire la questione bisogna addentrarsi nei meandri della burocrazia dell’Unione. Sappiamo che il 26 febbraio la Commissione europea ha presentato il primo pacchetto Omnibus volto ad alleggerire le normative sulla sostenibilità e, di conseguenza, i costi che comportano per le imprese. Da allora ha preso il via un iter molto articolato che deve ancora arrivare a conclusione.

Il quadro è complesso soprattutto per le modifiche alla direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità (Csrd) e alla direttiva sulla due diligence (Csddd). Entrambe, infatti, sono già approvate e portano con sé numerosi atti di secondo livello e standard tecnici collegati. Intervenire su questi testi significa riaprire dossier legislativi già chiusi, con effetti a catena sull’intero sistema.

Un altro colpo all’efficacia della Csrd

L’ultima novità in ordine di tempo riguarda proprio la Csrd. Il testo allarga la platea di imprese obbligate a redigere la rendicontazione di sostenibilità e introduce una metodologia uniforme, per far sì che le informazioni siano chiare, attendibili e comparabili. Finora il dibattito politico e mediatico si è concentrato soprattutto sul rinvio degli obblighi e sulla soglia di applicazione. Nel frattempo si lavora anche su altri aspetti più tecnici, in primis la revisione degli standard di rendicontazione Esrs.

Con la sua lettera indirizzata alle tre autorità europee di vigilanza e al presidente dell’Autorità antiriciclaggio, la DG Fisma spiega che per i prossimi anni è prevista l’adozione di ben 430 atti di livello 2 nella legislazione sui servizi finanziari. In questa categoria ricadono le misure necessarie per applicare gli atti di livello 1 (cioè direttive, regolamenti e decisioni). Visto che sono ritenuti troppi, 115 di essi sono stati classificati come “non essenziali”.

Questa scure si abbatte anche sulla Csrd. Perché tra gli atti “non essenziali” c’è anche quello che definirà gli standard per la rendicontazione di sostenibilità delle imprese extra-Ue. In principio, avrebbe dovuto essere adottato entro il 30 giugno 2026. Ora che è stato spostato più in basso nella gerarchia di priorità, bisognerà attendere almeno il 1° ottobre 2027.

Perché esonerare le aziende extra-Ue dalle norme sulla sostenibilità?

Formalmente l’entrata in vigore dell’obbligo di reporting di sostenibilità per le aziende extra-Ue è sempre la stessa e scatta nel 2029. Ma, stando alla testata francese Novethic, non è da escludere che questo rinvio sia il primo passo per accantonare la misura a tempo indeterminato. Se così fosse, sarebbe una grossa perdita di credibilità, autonomia e forza da parte dell’Unione europea. Perché equivarrebbe ad abbassare la testa di fronte alle pressioni da parte degli Stati Uniti e della Cina. I loro colossi industriali finora hanno beneficiato, in termini di costi, di normative ben più morbide in materia di sostenibilità. E hanno tutta l’intenzione di tenersi stretto questo vantaggio competitivo.

Ed è vero che per ora si parla soltanto di Csrd, ma non ci sarebbe da stupirsi se la prossima vittima fosse la direttiva sulla due diligence, nel mirino delle lobby di Washington e Pechino. Il testo impone infatti alle multinazionali straniere di vigilare sul rispetto dei diritti umani e dell’ambiente, esattamente come le imprese europee. Per colossi come Shein e Temu potrebbe essere un bel grattacapo. La vera partita, ora, è capire se l’Europa avrà il coraggio politico di difendere le proprie regole o se preferirà annacquarle. In questo secondo caso, farà probabilmente più fatica ad appellarsi alla solita scusa della competitività, mentre – di fatto – spiana la strada ai colossi stranieri.  

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