La vita delle braccianti in Italia. Tra violenze, contratti falsi e bimbi lontani
Soprusi, paghe da fame, bambini abbandonati per poter lavorare. Viaggio nell'inferno delle donne braccianti nell'Italia meridionale
La luce rosata della piazza diventa opaca mentre Catalina, bracciante, parla. Gli occhi scuri sono accesi. «Non lavoravo nei campi da tre anni. Ho dovuto ricominciare a causa della pandemia, dopo avere perso il posto da ragioniera. È difficile trovare qualcos’altro, specialmente se si è rumene. Stamattina mi sono alzata presto, cominciamo alle sei: prepariamo il terreno per piantare le fragole, lo concimiamo. Devo stare sempre piegata e adesso che sono incinta è faticoso. Mi sento sfiancata, però sono obbligata ad andarci, ho bisogno di soldi».
Basilicata, la California del Sud Italia
Catalina abbassa lo sguardo soltanto quando cerca, per qualche istante, le parole più adatte per rispondere alle domande. Ha trentadue anni, è arrivata in Italia con i genitori da dodici anni. Vorrebbe riuscire a finire l’università, Economia e commercio, ma non se lo può permettere, nonostante il marito abbia uno stipendio e non paghino l’affitto, perché vivono con i suoceri. «Durante il lavoro in campagna sento dei crampi. Sono andata dal ginecologo: potrebbero essere i movimenti di assestamento dell’utero ma corro il forte rischio di perdere il bambino. Non mi ha dato indicazioni concrete su cosa potrebbe succedere e come dovrei comportarmi. Secondo lui dovrei smettere e basta».
È l’ora dell’aperitivo di una serata di fine settembre, in provincia di Matera, i tavolini all’aperto si riempiono. Il clima è mite, le fragole crescono d’inverno, nelle serre. La fascia del metapontino, chiamata la California del Sud Italia, è una delle principali in cui si coltivano i frutti rossi. Le terre a ridosso del mare Ionio godono di un microclima favorevole e il suolo ha una composizione che rende il loro sapore unico. L’Italia è tra i principali produttori in Europa, con prezzi alti per i consumatori, rispetto ai concorrenti esteri, dai quattro agli otto euro al chilo. Nel settore sono impiegate soprattutto donne provenienti da Romania e Bulgaria. «Guadagno trentotto euro al giorno. Chi riesce lavora senza interruzioni, dal lunedì alla domenica. Gli uomini ricevono due euro in più all’ora perché hanno compiti più pesanti».
«Ho cercato occupazione, in risposta ho ricevuto avances sessuali»
Catalina ha cercato occupazione come segretaria e operaia nei magazzini di impacchettamento, provando con il passaparola, rispondendo agli annunci e mandando il curriculum. In risposta ha ricevuto avances sessuali. «Mi hanno detto che sono giovane e bella, mi hanno chiesto di andare a prendere un caffè; naturalmente intendevano altro. Soltanto se avessi accettato, mi avrebbero dato il posto. Allora è meglio zappare, nonostante mi sia successo anche nelle serre».
Di fronte ai no sfuma ogni possibilità di potere lavorare. «All’inizio sono cortesi, fanno i complimenti, non sembra ci sia qualcosa di male. Però, poi, una parola tira l’altra e si arriva sempre a quello. Ormai me ne accorgo subito. Allora saluto con educazione e vado via. A volte insistono, sia di persona sia telefonicamente, mi richiamano. Sono italiani, conoscono le nostre difficoltà economiche di straniere. Pensano che io sia una poverina buttata lì, una morta di fame, spinta a fare altro dal bisogno».
Il pensiero delle continue molestie causa a Catalina un senso di umiliazione e preoccupazione. «Non ho paura delle aggressioni, ho sempre fatto parecchia attenzione e sono sicura di me. In ogni caso mi viene l’ansia. Avrei voluto denunciare tante volte, non ho mai trovato le condizioni giuste. Ho conosciuto altre nella mia situazione. Provo una grande rabbia».
Molestie sessuali e ricatti, un fenomeno ben radicato
Da quanto emerge dalle venticinque interviste realizzate per questo report a operaie agricole, operatrici e operatori, ricercatori e ricercatrici, psicologhe, sindacaliste e imprenditrici, le molestie sessuali e i ricatti sono un fenomeno ben radicato nel metapontino e nelle aree limitrofe di Puglia e Calabria. Racconta Annarita Del Vecchio, psicologa e collaboratrice di ActionAid in Puglia: «Le comunitarie, le rumene in particolar modo, sono considerate donne facili, delle poco di buono, pericolose perché si crede che vengano a rubare i mariti delle italiane. Molte si ribellano, ma quando rispondono ai tentativi di abuso con il rifiuto, restano disoccupate. I molestatori sono soprattutto caporali e rimangono impuniti perché non ci sono denunce».
Adriana, donna leader della comunità rumena, sullo sfruttamento sessualeI nomi di chi commette le violenze, in certi casi, sono noti a tutti. Del Vecchio si è sentita raccontare dell’uomo chiamato “delle cime di rape”, nella zona di Ginosa Marina, un caporale che molesta le donne che lavorano per lui. Nel barese, da anni va avanti un metodo collaudato. La mattina, quando nelle piazze arrivano i furgoni per portare le operaie agricole nei campi, la “prescelta” viene fatta salire davanti, nello spazio accanto al guidatore. Sul cruscotto vengono messi un cornetto e un caffè caldo, comprati al bar. Mangiare la colazione significa accettare l’avances sessuale e quindi ottenere l’ingaggio. Rifiutando, invece, il giorno dopo si viene lasciate a casa».
Di molestie parla Simonetta Bonadies, psicologa e collaboratrice di ActionAid in Calabria. «Quando non sono aggressioni, sono comunque avances e minacce. Se pensiamo alla violenza come a una rete, quindi a un sistema fatto di violazioni di diritti e di soprusi, tutte le donne con cui ho parlato hanno subito la minaccia di perdere il posto se non si prestavano sessualmente».
Non esistono statistiche sui numeri reali delle violenze sessuali sul lavoro
Nei campi italiani e degli altri Paesi dell’Europa mediterranea non esistono statistiche sui numeri reali delle violenze sessuali sul lavoro, che includono insulti, palpeggiamenti, ricatti, assalti, stupri. Maurizio Alfano è un ricercatore nell’Arco ionico calabrese, autore di diversi saggi: «In quanto alle molestie sessuali, qui ci sono situazioni di omertà ancora più radicate rispetto ad altri territori. Le donne non denunciano perché hanno paura di ritorsioni a vari livelli. Qualcuna si vede sottrarre i documenti. Altre ricevono minacce contro i familiari rimasti in Romania o in Bulgaria. Chi continua a lavorare è piena di cicatrici e di ferite nell’animo: c’è un carico eccessivo da sopportare».
Reagire può significare finire nelle “liste nere”. «I caporali si telefonano l’uno con l’altro per segnalare le piantagrane. C’è uno scambio di manodopera e quindi di informazioni. Il sistema è sofisticato: è come se fossimo di fronte a un ufficio di collocamento totalmente irregolare e criminoso, in grado di gestire la manovalanza non soltanto nell’area ma anche fuori. Ad esempio, quando finisce la stagione dei mandaranci e inizia la semina delle fragole, i caporali organizzano i trasporti fino alla Basilicata. Vengono preferite le donne perché sono più prostrate e obbligate a sopportare con rassegnazione».
«Stare nei campi mina l’autostima»
«Io ho denunciato, non ho paura», dice Zorina, leader di ActionAid in Calabria, mentre con le dita sottili prende una sigaretta e l’accende. Si sposta il ciuffo dalla fronte, soffia il fumo e punta gli occhi. È originaria della Bulgaria e fa la stagionale da molti anni. «E lo sai come funziona? Le forze dell’ordine ti chiedono di aspettare perché nella zona si conoscono tutti. Chiamano il proprietario dell’azienda e cercano una soluzione informale, una compensazione economica».
Zorina aggrotta la fronte: «Stare nei campi mina l’autostima, ci si sente sparire perché si viene considerate degli oggetti. Le donne non parlano con nessuno di ciò che succede e pensano che il sistema in cui si trovano sia normale. I caporali stessi impongono di andare col datore di lavoro, l’ho visto con i miei occhi e succede ancora oggi. Lo sanno tutti, però fanno finta di niente e tacciono. Il problema delle molestie è che le lavoratrici non se le aspettano, non conoscono i loro diritti, non ricevono informazioni adeguate e così restano zitte».
I bambini in asili irregolari finché le braccianti non tornano dai campi
Adriana è stata una operaia agricola in Calabria prima di diventare una “colf”, parola che pronuncia con un mezzo sorriso: «Pulire case è un’occupazione migliore di altre. Sono stata abbastanza nell’agricoltura per rendermi conto di quanto sia difficile, come ambiente. Con il mio carattere sempre ribelle faticavo a resistere e così ho rinunciato». Adriana viene dalla Romania ed è una leader di ActionAid.
Con la voce dal tono pacato offre una fotografia impietosa della situazione. «Uno dei problemi di cui non si parla è quello della maternità: la gestione dei figli è davvero difficile per le lavoratrici agricole», dice alzando le spalle e scuotendo la testa. «Quando la campagna inizia presto, alle due o alle tre di notte, prendono i bambini addormentati e, se non hanno familiari di riferimento, li portano a casa di estranee che ne accudiscono cinque, sei, o dieci nelle loro case. Li tengono fino a quando le madri non tornano a prenderli, il pomeriggio. Mandarli all’asilo non è possibile, l’orario non lo permette».
In Calabria esistono gli “asili nido irregolari”, servizi a pagamento, in nero, con personale senza alcuna formazione che si occupa dei piccoli fino all’arrivo dei genitori. E qualcuna si porta i figli nelle serre, facendoli dormire in “cassette” di legno. «Tanto a chi interessa dove lasciamo i nostri bambini?» chiede Adriana, stringendo le labbra. «A nessuno. Non importa se li facciamo restare nei nostri Paesi di origine, affidandoli ai nonni o agli zii. Non conta se ci mancano, se non li vediamo per mesi. Le braccianti sono invisibili, sono solo dei numeri. A volte devono anche rinunciare al loro nome se è difficile da pronunciare e così, per potere avere un impiego, ne trovano un altro, più facile per gli italiani».
Il progetto “A casa con mamma” per sostenere le braccianti
Don Antonio supporta le straniere nel territorio di Matera con la Fondazione Migrantes, in collaborazione con l’Arcidiocesi. Va direttamente nei campi per verificare che non ci siano situazioni di sfruttamento. «Come parrocchia avevamo fatto un progetto, chiamato “A casa con mamma”, ispirato ai Paesi del Nord Europa, per accogliere i bimbi dai tre mesi ai tre anni. C’è la necessità trasversale, non solo per le operaie agricole, di lasciare i propri figli a qualcuno di fidato. Il servizio è stato attivo per quattro anni senza nessun sostegno dalle amministrazioni locali, nemmeno da quella regionale. Era una lotta continua per sopravvivere fino a quando è arrivata la pandemia e abbiamo dovuto chiudere». Nell’asilo venivano ospitati fino a un massimo di sei bambini, perché c’erano soltanto due operatrici a disposizione. La retta era di 290 euro al mese, incluso il servizio mensa, dalla mattina alle sette fino alle sedici.
Don Antonio Polidoro, Parroco di Scanzano Jonico, responsabile Migrantes BasilicataIl giardino della casa di Don Antonio è rigoglioso, con alberi di albicocche e ulivi. Nel patio spoglio si siede Anna, per l’intervista, mentre il parroco porta il caffè e offre una fetta di torta. Dentro, nell’appartamento, una grande stanza è adibita a magazzino, stipata di alimenti di prima necessità, dalla pasta, all’olio, ai barattoli di conserva. Vengono distribuiti a chi ne ha bisogno, incluse le stagionali che guadagnano troppo poco per arrivare alla fine del mese.
«Come si può vivere con così poco?»
Anna ha gli occhi lucidi e si soffia il naso. È in lutto: il compagno è mancato da due settimane, per un infarto. Un mese prima ha perso la madre, in Romania, senza nemmeno poterla salutare di persona a causa della pandemia. «Ho una bambina di nove anni e otto mesi» dice, illuminandosi per un attimo. «Per vivere raccolgo fragole, albicocche e arance. Prendo tra gli 800 e i mille euro, ma prima avevamo la pensione di invalidità del mio compagno. Non eravamo sposati e adesso sembra che non avrò diritto a nulla».
Resta in silenzio, cercando di trattenere le lacrime, con grossi sospiri. «Quando lavoravo nei campi mia figlia stava col papà, adesso non so cosa faremo. Di solito io devo andare in campagna alle sei di mattina, e non posso certo lasciarla sola, non starei tranquilla. Solo di affitto paghiamo 400 euro al mese. Poi ci sono la luce e il gas. Come si può vivere con così poco? Mia figlia a scuola è bravissima, le piace studiare, vorrei mandarla all’università».
L’asilo nido che apre alle quattro del mattino per aiutare le braccianti
Ad Adelfia, in provincia di Bari, a seguito della sperimentazione con ActionAid, il nido comunale ha adottato orari flessibili, aprendo dalle quattro di mattina. Secondo Del Vecchio, rappresenta un passo importante, paradigmatico per altre realtà. «Le lavoratrici dell’agricoltura si trascinano un carico emotivo e un senso di colpa inimmaginabili da fuori. Già attorno ai sei o sette anni i bimbi vengono lasciati a casa da soli, quando la notte loro escono. In genere, la mattina, una vicina li porta alla fermata dell’autobus o dello scuolabus». In altri casi le donne “accompagnano” telefonicamente i figli lungo il tragitto. Una madre dell’Est Europa è stata segnalata dalla vicina ai servizi sociali per abbandono di minore e ha rischiato di perdere la potestà genitoriale.
Le italiane fanno affidamento sulla rete familiare mentre le straniere, spesso, sono senza supporto. «Tutte vorrebbero un’infanzia dignitosa per i loro figli, normale, come quella degli altri. Vorrebbero poterli portare al mare d’estate, ma in spiaggia non riescono mai ad andarci perché lavorano sempre». Il senso di inadeguatezza si accompagna al dispiacere per le molte ore di separazione. Nei magazzini in provincia di Bari «c’è l’obbligo degli straordinari. Decidere di non farli è impossibile perché si è vincolate al trasporto organizzato dall’azienda, ai pullman che spostano la manodopera da una provincia della Puglia all’altra. Non esiste la possibilità di scegliere. Una donna mi ha detto: pensiamo che la schiavitù sia stata abolita ma non è vero».
Adriana, donna leader della comunità rumenaBraccianti spesso senza accesso ai servizi sanitari
A rendere ancora più dura la vita delle donne impiegate nella raccolta della frutta e delle verdure che arrivano sulle nostre tavole e su quelle di altri Paesi europei è la difficoltà di accesso ai servizi di base, come quello sanitario. Per le comunitarie spesso il medico è legato alla stagionalità del contratto. Andare a fare una visita significa perdere la giornata.
A pesare, inoltre, sono le discriminazioni per il fatto di essere straniere e irregolari. Una raccoglitrice di fragole e mandaranci ha vissuto il dolore della morte di un figlio durante il parto, alla fine di una gravidanza senza complicazioni apparenti. «Il bambino non riusciva ad uscire. Sarebbero dovuti intervenire con il cesareo d’urgenza ma hanno ritardato troppo, fino a quando non c’è più stato niente da fare. Ho chiesto l’autopsia e mi hanno risposto che tanto non mi sarebbe servita perché ero senza documenti. Si sono offerti di seppellirlo a spese dell’ospedale. Non ricordo nemmeno se ho firmato io quelle carte».
La Cittadella della condivisione a Corigliano-Rossano Calabro
Grazie alla collaborazione delle leader locali, a Corigliano-Rossano Calabro è stata creata la Cittadella della condivisione, tre locali adibiti a sportelli di consulenza, con diverse figure professionali. «La Cittadella della condivisione serve per migliorare la nostra vita. Finalmente le donne non sono più invisibili e c’è un luogo dove possono essere ascoltate.
Qui vengono a chiedere consulenza per questioni burocratiche, mediche, psicologiche e c’è la referente di un centro antiviolenza» spiega Viola. È originaria dell’Ucraina e vive in Italia da una ventina d’anni. Parla russo, ucraino, ungherese, bulgaro, polacco e italiano. È diventata una leader per ActionAid dopo avere lavorato nei campi e collaborato con associazioni e col sindacato. «Sono arrivata in Italia per turismo – racconta -. Ero venuta a trovare un’amica. Per curiosità ho fatto la raccolta degli agrumi in Calabria e sono rimasta perché ho incontrato mio marito». Per Viola è importante che le donne si sostengano tra di loro: «Devono avere coraggio, bisogna lottare. Io sono fiduciosa, c’è speranza per tutte, però occorre essere unite perché da sole non si fa niente».
«Paghe da fame: 30 euro al giorno per otto, nove, dieci ore di lavoro»
Maria è diventata leader di ActionAid a Ginosa Marina, in provincia di Taranto, dove è delegata sindacale per la Flai Cgil; segue 145 operaie agricole, in collaborazione con un altro sindacalista. Fa una smorfia quando le si domanda se lo sfruttamento è diffuso: «Certo, la maggior parte delle stagionali viene a chiedermi delle paghe, che sono basse, bassissime. Sono ancora 30 euro al giorno per otto, nove, dieci ore di lavoro, senza pause né un bagno dove potere andare. A volte non le lasciano nemmeno con la bottiglietta dell’acqua. Ci vorrebbero maggiori controlli, le autorità dovrebbero essere più presenti. Purtroppo, lo sfruttamento in questa parte della Puglia è la regola, non l’eccezione, anche per le persone assunte: aprire la bocca significa non venire più richiamata. E questo vale perfino per chi risponde in maniera assolutamente garbata e gentile».
Maria segue le straniere che guadagnano, in media, 700 euro al mese, e si ritrovano, segnati in busta paga, soltanto tre giorni. «A Ginosa Marina un affitto costa 300 euro e quindi è normale dovere vivere in dieci in una casa. Le buste paga sono tutte false, viene segnato il minimo possibile delle ore. Gli straordinari non vengono contati».
«Le buste paga dei braccianti sono tutte false»
Maria è originaria della Romania. È entrata in contatto con il sindacato dopo quattro anni in nero come giardiniera, nel tarantino, durante i quali faceva di tutto: si arrampicava sugli alberi con la fune, usava la motosega e l’accetta. Il datore di lavoro non voleva concederle il trattamento di fine rapporto, perché era senza contratto. Ha puntato i piedi e con l’intervento della Flai Cgil è riuscita ad ottenere una parte della compensazione che le spettava.
«So bene cosa significa non avere diritti. Da quando sono arrivata a Ginosa Marina per me è stata una sofferenza continua: avevo una bambina piccola, non sapevo a chi rivolgermi per un lavoro, mio marito aveva uno stipendio insufficiente per la famiglia. Adesso mia figlia è adolescente ed è cresciuta bene, grazie a Dio. Aveva cinque anni quando ha cominciato a rimanere a casa senza nessuno. Uscivo presto, anche alle cinque di mattina: se devi mangiare non hai alternative, purtroppo l’amore non passa dallo stomaco. Quando era malata non potevo mai starle vicino, le mettevo lo sciroppo con la siringa sul comodino e lo prendeva da sola. È questa la verità sul sistema, perché chi si permette di assentarsi per un giorno poi viene lasciata a casa per ripicca».
C’è chi guadagna solo 22 euro al giorno. E fa concorrenza sleale
Dalle interviste, le paghe medie si aggirano tra i 600 e i 900 euro al mese, per cinque o sei giorni di lavoro nei campi. Ma c’è addirittura chi guadagna meno, perché non riesce a fare tante giornate. Secondo Lucia La Penna, segretaria della Flai Cgil di Taranto, il salario giornaliero dovrebbe essere, stando al contratto provinciale, di 50 euro e 12 centesimi. Nella realtà ci sono situazioni fortemente diversificate perché nella zona orientale della provincia «alcune lavoratrici arrivano a percepire soltanto 22 euro circa al giorno».
Funziona diversamente nella parte occidentale. In alcuni casi c’è chi riceve la busta paga con il minimo contrattuale, con un bonifico corrispondente, e deve restituire una parte dei soldi perché il salario di piazza è differente da quello versato. Un problema non solo per le lavoratrici che subiscono una vera estorsione «ma anche per le aziende eticamente corrette del nostro territorio, molte delle quali presenti sul mercato internazionale, oltre a quello italiano, che vogliono rispettare le regole e si ritrovano ad affrontare una concorrenza sleale».
I nomi delle lavoratrici agricole, fatta eccezione per le leader Adriana, Viola e Maria, sono stati cambiati. I virgolettati sono stati estrapolati dalle interviste. In alcuni passaggi il testo è stato sintetizzato e adattato per rendere la lettura più scorrevole.
Questo testo fa parte del rapporto “Cambia Terra” curato da ActionAid.