Dal Brasile a Taranto, le vittime dei disastri ambientali si uniscono per chiedere giustizia
Le vittime del crollo della diga di Mariana e dell’ex Ilva di Taranto cercano giustizia attraverso due class action
Il pomeriggio del 5 novembre 2015 a Mariana, nel sud-est del Brasile, improvvisamente cedette una diga. Conteneva 40 miliardi di metri cubi di acqua e fanghi rossi prodotti dalla vicina miniera di ferro. Una micidiale onda tossica contenente arsenico, piombo, mercurio e altri inquinanti travolse i villaggi, uccidendo sul colpo 19 persone, ferendone 50 e lasciando migliaia di sfollati. La contaminazione di terre e fiumi, compreso il fiume Doce sacro alla tribù indigena Krenak, si irradiò fino a 700 km di distanza e in buona parte dura tuttora. Fu uno dei peggiori disastri nei distretti minerari del Brasile. Ma non l’unico.
Siglato un patteggiamento record per il crollo della diga di Mariana
La miniera di ferro in questione apparteneva a Samarco, una joint venture paritaria tra il gruppo minerario australiano BHP e quello brasiliano Vale. Il processo che ne seguì attestò che il cedimento della diga era stato causato dalla cattiva gestione della compagnia mineraria Samarco, che peraltro non aveva fornito tempestive informazioni sul livello di inquinamento dell’acqua, sulla tossicità e sui rischi per la salute umana e degli ecosistemi. Il 25 gennaio 2024 la Giustizia federale brasiliana condannò le società minerarie Vale, BHP e Samarco a pagare in tutto 9,67 miliardi di dollari come risarcimento dei danni collettivi. Sembra un’enormità ma BHP, da sola, nel 2023 ha registrato un utile sottostante di 13,66 miliardi di dollari.
A fine ottobre, BHP e Vale hanno raggiunto un patteggiamento con il governo del Brasile. Le cifre sono da record: sborseranno in tutto 29,8 miliardi di dollari, una cifra che ne include anche 6,7 che hanno già speso. Così facendo, intendono chiudere almeno un centinaio di cause civili, pur restando aperta la possibilità che in futuro se ne aprano altre legate a danni ancora sconosciuti. Durissimo il presidente brasiliano Lula, che auspica che le società «abbiano imparato la lezione». «I soldi che avrebbero dovuto usare per prevenire la tragedia li hanno spesi per pagare dividendi», ha commentato, descrivendo l’incidente come una questione di «mera irresponsabilità».
La class action contro BHP per il disastro minerario in Brasile
A questa condanna però ora si aggiunge una nuova imponente class action con richieste di risarcimento individuali da parte di 620mila ricorrenti, tra cui 600mila cittadini, una cinquantina di comuni, imprese e rappresentanti dei popoli indigeni. Il valore totale si aggira complessivamente sui 40 miliardi di dollari. Secondo i ricorrenti BHP sapeva dei rischi di cedimento ma, nonostante questo, chiese comunque di aumentare la produzione nella miniera di ferro.
La class action è iniziata il 21 ottobre nell’Alta Corte di Londra (poiché all’epoca dei fatti la BHP aveva una sede nella capitale inglese) ma la sentenza ci sarà solo tra qualche anno. Anche Vale sta affrontando una simile class action nei Paesi Bassi. Anche se nessuna cifra ripagherà le vite umane né il disastro ambientale, queste cause civili sono molto importanti. Le multinazionali in tutto il mondo temono la rivolta delle vittime, perché le vittime sono tante e tutte insieme possono diventare potenti.
Il filo rosso che lega la miniera di Mariana e l’ex Ilva di Taranto
Ricordiamo che anche in Italia sono in corso due class action portate avanti dai cittadini di Taranto danneggiati dal decennale inquinamento dell’acciaieria ex Ilva (dal 31 luglio ufficialmente in vendita). Un filo rosso lega queste battaglie da un luogo all’altro del mondo, da una zona di sacrificio all’altra. Perché il ferro che entra nell’acciaieria di Taranto, per essere trasformato in acciaio, proviene proprio dalle miniere del Brasile. E molti problemi di inquinamento ambientale sono simili.
Il 24 ottobre scorso c’è stata la prima udienza della class action inibitoria portata avanti dai Genitori Tarantini (10 adulti e un bambino affetto da una rara mutazione genetica) seguiti dagli avvocati Maurizio Rizzo Striano e Ascanio Amenduni, nel Tribunale di Milano. Il prossimo 6 febbraio 2025 ci sarà la discussione finale e poi, tra vari mesi, la sentenza.
La causa inibitoria chiede la «cessazione delle attività dell’area a caldo» dell’acciaieria, mentre la class action risarcitoria che corre parallela (con 136 ricorrenti, compresi i promotori dell’azione inibitoria), chiede il risarcimento di chi è stato danneggiato. In realtà sia Ilva che Acciaierie d’Italia (ADI) sono fallite quindi ad oggi non potranno risarcire. Se ci sarà un acquirente, la class action sarà proposta contro di lui.
La salute umana viene prima del profitto
La causa, sospesa in attesa del pronunciamento della Corte di Giustizia Europea, il 25 giugno è stata dichiarata ammissibile. La Corte ha infatti dichiarato che, «in presenza di pericoli gravi per l’ambiente e la salute umana, l’attività dell’ex Ilva deve essere sospesa». Un pronunciamento importante, a siglare ancora una volta che la salute e la vita umana vengono prima del profitto e della continuità produttiva. Anche quando entrano in gioco le “produzioni strategiche”.
I cittadini brasiliani come quelli di Taranto, dopo aver perso la salute e i propri cari, dopo aver visto la natura attorno a loro irrimediabilmente contaminata, non si sono persi d’animo. Come tanti piccoli lillipuziani, stanno dimostrando che l’unione delle vittime dei disastri ambientali può colpire al cuore i potentati economici. E provare a fermare gli ingranaggi di un sistema sempre più tossico.