«I contenziosi climatici devono andare oltre i confini nazionali»

Intervista a Corinne Lepage, avvocato ed ex ministro dell'Ambiente in Francia, che da anni si batte per la giustizia climatica

Giovanni Cirone
L'ex ministro dell'Ambiente francese Corinne Lepage © Corinne Lepage/Wikimedia Commons
Giovanni Cirone
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Il rapporto tra ambiente e diritti è ormai da considerarsi centrale per l’esistenza di tante società. Siano esse capitalisticamente strutturate o meno, le conseguenze delle loro politiche e azioni incidono in maniera sempre più crescente su sistemi strettamente connessi. Questi vasi comunicanti producono esiti, e ricadute tra diversi piani: da quello economico-finanziario a quello sociale, dall’ambito occupazionale alla sfera sanitaria, dalla contrapposizione di modelli di sviluppo all’individuazione e riconoscimento di più mirate fattispecie giurisprudenziali e regolatorie.

Su queste ultime, abbiamo ascoltato il parere di Corinne Lepage, ministra dell’Ambiente in Francia dal 1995 al 1997, poi deputata al Parlamento europeo. Co-fondatrice con Christian Huglo dello studio Huglo Lepage Avocats, è una protagonista indiscussa del settore. Con il suo impegno e la vasta esperienza, resta un punto di riferimento europeo per attività di consulenza in ambito strategico e contenzioso.

Auspicando la crescita di procedure per la giustizia climatica, qualche anno fa lei ha detto che serve «passare dal concetto di diritti dell’uomo a quello di diritti dell’umanità». A che punto siamo in questo senso?

Esiste un testo, la Dichiarazione universale dei Diritti dell’umanità (DUDH), presentato alla Cop21 (la ventunesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, ndr) su richiesta dell’allora presidente della Franca François Hollande, oggi sostenuta da molte organizzazioni non governative, città, ordini degli avvocati, che stabilisce precisamente i diritti e i doveri dell’umanità.

Credo che questo testo sia più essenziale che mai, e stiamo lavorando per farlo riconoscere dalle Nazioni Unite. Tra l’altro, l’associazione che lo sostiene ha ottenuto lo status consultivo presso l’Onu.

Nel 2019, proprio il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani, Philip Alston, ha prospettato l’avvento di un “apartheid climatico”. Intendeva dire che i più ricchi avranno maggiori chance di sottrarsi agli impatti del riscaldamento globale, alla fame, ai conflitti. Persone comuni e poveri, no. Ad oggi, come interpreta questa visione, catastrofista o realistica?

Purtroppo, il problema della crescente disuguaglianza è strettamente legato a quello dei cambiamenti climatici. Se continuiamo sulla stessa strada, intere regioni diventeranno inabitabili, creando rifugiati climatici nullatenenti, e non solo: provocando anche molte morti. Ovviamente, non tutte le regioni del mondo sono colpite allo stesso modo. Anche i Paesi industrializzati registrano un aumento delle temperature superiore alla media globale.

La loro situazione, tuttavia, è meno catastrofica di quella dell’Africa, di gran parte dell’Asia e di gran parte del Sud America. Una recente mappa, basata su un ipotetico aumento medio della temperatura di 2,7 gradi, mostra che in queste diverse parti del mondo ampie aree sono già diventate totalmente inabitabili, ed una grande parte del Pianeta è soggetta a condizioni di vita estremamente difficili.

Il database delle “controversie sui cambiamenti climatici”, creato dal Sabin Center for Climate Change Law presso la Columbia Law School e da Arnold & Porter, registra attualmente 2.369 casi, per complessivi 12.103 documenti. A questo proposito, come giudica il crescente utilizzo dei contenziosi giudiziali, sia per chi accusa sia per chi si difende?

L’ultimo rapporto pubblicato parla da sé. Prima di tutto, la maggior parte dei casi viene vinta, in particolare in Europa, ma anche in molti altri Paesi. In secondo luogo, il riconoscimento della lotta contro i cambiamenti climatici come base del diritto alla vita e alla salute sta progredendo in tutto il mondo. Ad esempio, attendiamo con grande interesse le sentenze che saranno emesse dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo nei casi delle anziane signore svizzere e di Damien Carême (che ho avuto l’onore di difendere).

Inoltre, il rinvio alla Corte internazionale di giustizia, a seguito della risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sulla questione se uno Stato sia responsabile nei confronti degli altri se non mette in atto le politiche necessarie, genererà una risonanza importante. Infine, le cause contro le aziende si moltiplicano, non solo sulla base dei diritti umani e della responsabilità, ma anche su quella del diritto del consumatore classico, della finanza, della pubblicità ingannevole basata su questioni di vigilanza e diligenza, così come su false informazioni con contenuto ambientale.

Quest’anno è stato pubblicato il Rapporto sull’ecocidio dello European Law Institute (ELI), ma già nel 2021 la Francia aveva approvato la legge “Clima e resilienza”, che cerca di delineare una precisa dimensione legale del crimine di ecocidio. Secondo lei, estendere il concetto del crimine quali rischi comporta?

Purtroppo, la legge approvata in Francia è molto lontana dal crimine di ecocidio. È solo un reato generale di danno ambientale. Il crimine di ecocidio è stato oggetto di molte discussioni legali, e sono convinta che arriverà il giorno in cui sarà riconosciuto.

Il vero problema, come nel caso dei cambiamenti climatici, è andare oltre la sfera nazionale, perché il crimine di ecocidio può mettere a rischio il mondo vivente nel suo complesso, e non solo a livello nazionale. È chiaro che tutti coloro che ritengono di poter essere implicati su tale base faranno del loro meglio per impedire il riconoscimento di questo crimine e, soprattutto, il perseguimento. La questione si porrà se lo statuto della Corte Penale Internazionale potrà essere modificato per includere il crimine di ecocidio, e per prevedere la competenza della corte a punirlo.

Le accuse alle carbon majors spesso s’infrangono contro il muro di interessi degli Stati per cui operano. Se ciò è vero, incidere sull’ambito economico-finanziario è più una speranza o una realtà?

A volte, la soluzione sta nel trovare una giurisdizione già competente in un altro Paese. Le carbon majors sono state principalmente oggetto di cause negli Stati Uniti, azioni legali che fanno fatica a progredire. Molto recentemente, però, è stata presa una decisione per trovare la giurisdizione competente. In Francia, è vero che le procedure contro Total stanno incontrando grandi difficoltà, ma è la direzione della storia a condannarle. I Paesi Bassi, in questo senso, hanno dato l’esempio.