“Troppo poco per il clima”: azionisti critici all’attacco di Shell
L'associazione "Follow This": il piano di riduzione delle emissioni della compagnia non in linea con l'Accordo di Parigi sul clima. La sua mozione in assemblea
Il momento della verità è fissato per la giornata di domani, martedì 22 maggio. All’assemblea annuale di Shell sarà sottoposta al voto la risoluzione sul clima presentata dall’associazione degli azionisti responsabili dell’associazione Follow This. Sul tavolo c’è lo Sky climate scenario, il programma di riduzione della carbon footprint – la dimensione dell’impatto delle attività di impresa in termini di emissione di gas serra – del colosso anglo-olandese. Secondo i piani aziendali dovrebbe essere dimezzata entro il 2050. Gli attivisti di FT, tuttavia, giudicano il programma troppo blando. Chiedono quindi l’adozione di un iter decisamente più ambizioso, in linea con gli obiettivi climatici di Parigi.
I conti non tornano
A vanificare il programma della compagnia, notano i critici, è la crescita della domanda globale di energia. Un fenomeno destinato a trovare conferma nei prossimi decenni, come sottolinea Greg Muttitt, Research Director della Ong di Washington Oil Change International. «Il piano di Shell – ha spiegato nel corso di una conferenza stampa lo scorso 17 maggio – consiste nella riduzione del 50% dell’intensità delle emissioni derivanti dalle sue operazioni entro il 2050. Il miglioramento dell’efficienza energetica può sembrare notevole, ma il dato va inserito nel contesto di un aumento della produzione».
A favorire il cambiamento del clima, sostiene infatti Muttitt, non è tanto l’intensità energetica (il rapporto tra emissioni ed energia prodotta) bensì il quantitativo di gas serra in valore assoluto. E il problema, aggiunge, è che ai tassi di crescita attuali – più 3,5% all’anno – la produzione di Shell dovrebbe triplicare entro la metà del secolo generando un aumento del 50% delle emissioni complessive.
Mozione al voto
Shell ha raccomandato agli investitori di esprimersi contro la risoluzione di Follow This. Gli azionisti responsabili non si scompongono e lasciano trasparire una certa fiducia. All’assemblea 2017, una mozione analoga sul clima ha ottenuto il 6,3% dei voti favorevoli e il 5,3% delle astensioni. A differenza dell’anno scorso, tuttavia, Aegon Group, il più grande investitore istituzionale d’Olanda con quasi 800 miliardi di dollari di asset gestiti, ha deciso di appoggiare la risoluzione. Posizione analoga a quella assunta già lo scorso anno dai fondi istituzionali più piccoli: MN Service, Van Lanschot Kempen, Actiam, Achmea IM e Blue Sky Group. All’elenco dei sostenitori si sono aggiunti lo scorso 11 maggio alcuni investitori britannici, tra cui i fondi pensionistici della Church of England e della UK Environment Agency
Pressing sulla compagnia
Ad intensificarsi, nel frattempo, è il pressing attorno alla compagnia. Jelmer Mommers, giornalista investigativo dell’agenzia olandese De Correspondent, accusa in particolare la corporation di essere stata a conoscenza del fenomeno del riscaldamento globale fin dagli anni ’80.
Tra i circa 40 documenti diffusi da Mommers nelle sue inchieste anche un rapporto interno datato 1988. In quel documento Shell riconosceva come «i carburanti fossili prodotti dal gruppo siano responsabili del 4% della CO2 originata dalla combustione su scala globale».
Nel documento, intitolato “The Greenhouse Effect”, si sottolinea inoltre come i mutamenti del clima possano produrre “cambiamenti significativi in termini di innalzamento dei livelli degli oceani, correnti oceaniche, precipitazioni, temperature e fenomeni metereologici”.
La precoce consapevolezza del fenomeno, accusa Mommers, non avrebbe comunque impedito alla compagnia di spendere 22 milioni di euro in attività di lobbying soltanto nel 2015 con l’obiettivo di contrastare le politiche europee a favore delle rinnovabili.
Shell “ospite fisso” in tribunale
Nulla di tutto questo, in ogni caso, avviene senza conseguenze. «Shell continua a spingere per ‘apertura di nove frontiere di sfruttamento delle risorse fossili in molte aree del mondo tra cui, ironicamente, nelle stesse regioni artiche soggette al disgelo con conseguenze negative non solo per il Pianeta ma anche per i suoi stessi investitori» ha spiegato in conferenza stampa Carroll Muffett, presidente della società legale no profit Center for International Environmental Law di Ginevra, che ha aggiunto: «Se guardiamo alle norme sugli illeciti civili, alle responsabilità extracontrattuali nell’ambito della giurisdizione civile e alle leggi internazionali sulla tutela dei diritti umani, ci sono sempre maggiori motivi per ritenere Shell e le altre compagnie del settore fossile responsabili della crisi climatica».
Soltanto negli Stati Uniti, ricorda ancora Muffett, la corporation è citata in giudizio in 11 diverse giurisdizioni. Milieudefensie, un’associazione olandese legata alla Ong Friends of the Earth, ha iniziato a pianificare un’azione legale per denunciare l’impatto delle attività della compagnia sul riscaldamento globale.