Come (e quanto) funziona il climate factor voluto dalla Banca centrale europea
Con il climate factor, la Banca centrale europea tutela la stabilità monetaria dai rischi legati al clima. Ma per Big Oil cambierà ben poco
Nonostante l’emergenza climatica sia conclamata, le grandi banche restano legate a doppio filo ad aziende che riversano in atmosfera enormi quantità di gas serra. Lo fanno in tanti modi: le finanziano, collocano o acquistano le loro obbligazioni, le assistono come consulenti. Dimenticando che la crisi climatica mina alla base il loro modello di business. Chi sperava che i grandi nomi della finanza ne prendessero coscienza da soli finora è rimasto deluso, considerato che le alleanze per la decarbonizzazione stanno fallendo una dopo l’altra e i volumi di prestiti restano stratosferici. Devono entrare in gioco dei disincentivi imposti dall’alto.
La Banca centrale europea, dopo parecchi tentennamenti, ne ha introdotto uno. Ribattezzato climate factor, penalizza chi presenta come garanzie per ottenere prestiti dalla Bce i titoli di società fortemente esposte ai rischi climatici. Come funziona questa misura? Soprattutto, funziona? Un’inchiesta di Follow the Money cerca di dare una risposta.
Perché intervenire sugli asset che la Bce accetta come garanzie
Qualsiasi banca commerciale può chiedere liquidità alla Banca centrale europea, a un tasso prevedibile, senza così doversi affidare a mercati più instabili. Per dimostrare di essere sufficientemente solida deve presentare come garanzia degli attivi, il cosiddetto collateral: titoli di Stato, obbligazioni bancarie garantite (covered bond), titoli cartolarizzati (asset-backed securities), obbligazioni societarie.
Si è venuto così a creare un paradosso, che abbiamo già descritto su Valori: tra le obbligazioni accettate come garanzie ci sono anche quelle delle compagnie petrolifere. Anche con un orizzonte a vent’anni. Il che pone due tipi di problemi. Innanzitutto, incoraggia – di fatto – le banche a continuare a sostenerle. In secondo luogo, è una scommessa azzardata. Se veramente la transizione ecologica andrà avanti, com’è necessario per garantirci un Pianeta abitabile, tra vent’anni queste società non potranno più estrarre né bruciare parte delle riserve fossili che hanno iscritto a bilancio. Il valore di questi asset, dunque, crollerà.
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Cos’è il climate factor introdotto dalla Banca centrale europea
Su questi problemi la Banca centrale europea interviene attraverso il climate factor. Aveva parlato per la prima volta di questa misura nel 2021 e a un certo punto sembrava averla archiviata, salvo poi approvarla quest’estate. In sostanza, già oggi il valore dei collaterali fornito dalle controparti non viene conteggiato al 100%, ma è soggetto a uno sconto (haircut). Il climate factor è un ulteriore taglio del prezzo per le obbligazioni societarie emesse da società non finanziarie che, a seguito di «analisi prospettiche basate su scenari climatici», vengono ritenute particolarmente vulnerabili ai rischi di transizione. Semplificando molto, una banca che detiene obbligazioni di compagnie petrolifere potrà ottenere meno credito rispetto a una concorrente che non è altrettanto esposta, a parità di asset. Il nuovo sistema entra in funzione nella seconda metà del 2026.
«In un momento in cui gran parte dell’ambizione climatica e ambientale viene ridimensionata, è incoraggiante vedere la Bce che finalmente integra il clima nel proprio quadro dei collaterali, una delle leve più potenti della politica monetaria», commenta Dominyka Nachajute dell’ufficio europeo del Wwf, parlando di «un segnale forte all’intera comunità finanziaria affinché integri il rischio climatico nella gestione dei rischi di base, sottolineando che gli asset ad alto contenuto di CO2 sono intrinsecamente più rischiosi e possono subire una riduzione del valore come collaterale».
Ma il climate factor potrebbe non scalfire le Big Oil
L’inchiesta di Follow the Money prova a fare un passo in più, chiedendosi se il climate factor inciderà sul business delle compagnie petrolifere. Ad oggi, queste ultime beneficiano di costi di finanziamento più bassi rispetto alla media e ricavano più della metà dei capitali per l’espansione dei combustibili fossili proprio attraverso l’emissione di obbligazioni. Cosa cambierà se queste diventeranno meno appetibili agli occhi delle banche?
Gli analisti hanno effettuato una simulazione su Shell, ipotizzando un haircut – ritenuto verosimile – pari all’80%. Applicandolo ai bond emessi dal colosso petrolifero anglo-olandese lo scorso anno, e ipotizzando che Shell debba offrire interessi più alti per convincere gli investitori a comprarli, i costi aggiuntivi di finanziamento stimati ammontano a 37 milioni di dollari. Una cifra che suona considerevole agli occhi di molti, ma non di una società che nel 2024 ha registrato un fatturato di 250 miliardi di euro. L’aumento dei costi di finanziamento è pari allo 0,01% dei ricavi. O, per usare un altro metro di misura, allo 0,27% degli utili. Difficile pensare che cifre come queste convincano Shell a decarbonizzare il proprio business.
In fin dei conti, conclude Follow the Money, è comprensibile. Il climate factor è uno strumento con cui la Banca centrale europea vuole salvaguardare la stabilità monetaria dell’Eurozona, come prevede il suo mandato. È una sorta di cuscinetto in più che tutela il sistema finanziario dalle possibili perdite legate alla crisi climatica, ma non può – né vuole – scardinare le cause che la generano. In questo senso, è una misura molto meno ambiziosa di quanto possa sembrare.
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