Bruxelles presenta il pacchetto Omnibus: addio a sostenibilità e diritti umani?

Oggi la Commissione europea presenta il pacchetto Omnibus, che modifica la tutela di ambiente e diritti umani da parte delle imprese

La Commissione Europea presenta il pacchetto Omnibus, che modifica Csddd, Csrd e tassonomia © olrat/iStockPhoto

Oggi la Commissione europea presenta il pacchetto Omnibus. Il provvedimento modificherà la direttiva sulla Corporate sustainability due diligence directive (Csddd) che impone alle imprese di monitorare gli impatti sui diritti umani lungo le catene di fornitura e intervenire in caso di violazioni. E apporterà cambiamenti anche alla Corporate sustainability reporting directive (Csrd) che disciplina le rendicontazioni di sostenibilità da parte delle aziende europee e la tassonomia delle attività economiche eco-compatibili.

Ufficialmente, si punta a snellire il percorso che le imprese devono compiere per rispondere ai criteri di sostenibilità. Concretamente, la sensazione è che si stia andando nella direzione di un indebolimento sistematico di normative che imponevano “paletti” ambientali e sociali alle imprese. E ciò proprio in una fase di aumento delle disuguaglianze, del potere delle multinazionali e con ripetuti crisi economiche, ambientali e sociali pagate soprattutto dai più deboli.

Il peso delle imprese nel processo che ha portato al pacchetto Omnibus

Si è trattato di un percorso, quello che ha portato al pacchetto Omnibus, sul quale hanno pesato fortemente le attività di lobbying delle grandi imprese. Innanzitutto la consultazione pubblica di fatto non è avvenuta. Al tavolo di confronto a porte chiuse c’era un numero elevato di multinazionali, a fronte di sole dieci organizzazioni non governative. A confermarlo è Margherita Romanelli, co-portavoce della campagna Impresa 2030, secondo la quale «una consultazione pubblica, in linea con i principi europei, finora è stata negata. Nelle scorse settimane si sono svolti incontri solo su invito, principalmente a vantaggio di grandi interessi privati».

Anche tra le imprese ascoltate, quelle di grandi dimensioni erano la schiacciante maggioranza. Le piccole e medie imprese (Pmi) presenti erano appena il 13%, pur essendo numericamente il 90% del totale in Europa. Quasi un terzo degli invitati (29%) rappresentava gli interessi del settore finanziario. Un sostanzioso 13% era poi costituito dal settore oil&gas. Le grandi aziende presenti, sottolinea il centro di ricerca indipendente sulle multinazionali Somo, provenivano da soli cinque Paesi europei: Spagna, Francia, Italia, Germania e Paesi Bassi. Si aggiungono poi quelle di Regno Unito e Stati Uniti, visto che le normative in discussione si applicano anche ai soggetti extra-europei che rispettano determinati requisiti.

L’appello di Impresa 2030 ai commissari europei: «Salvate la due diligence»

Questi elementi fanno temere un esito prevedibile, come denunciano circa quaranta organizzazioni italiane, coordinate da Impresa 2030. La rete ha inviato una lettera aperta ai commissari europei Stéphane Séjourné e Valdis Dombrovskis esprimendo perplessità e preoccupazione in particolare per le sorti della direttiva sulla due diligence (Csddd). Entrata in vigore a luglio 2024 e, nonostante ciò, inserita tra le norme da rivedere.

Le organizzazioni segnalano il rischio che la semplificazione annunciata si traduca in un indebolimento degli impegni aziendali in materia ambientale e di rispetto dei diritti di chi lavora nelle filiere globali. Inoltre, spiegano, la norma in questo momento garantisce uniformità e certezza del diritto. Perché costringe anche i fornitori extra-europei ad adattarsi agli standard dell’Unione in materia di ambiente e diritti umani, riducendo la possibilità di concorrenza sleale. «Non si tratta solo di definire regole comuni a livello comunitario – precisa la nota – ma anche di proteggere il tessuto produttivo italiano, in particolare le Pmi, spesso soggette a contratti predatori e pratiche commerciali sleali che possono portare a violazioni dei diritti umani, del lavoro e dell’ambiente».

Le Ong chiedono di conseguenza di non rivedere il testo. Anzi, esortano la Commissione ad accelerare sui regolamenti e sulle linee guida che non ha ancora emanato ma che risultano indispensabili per il recepimento della direttiva da parte degli Stati. «Attraverso questa lettera – commenta Cristiano Maugeri, co-portavoce di Impresa 2030 – chiediamo ai commissari di non riaprire un dossier già oggetto di un significativo ridimensionamento, affinché non si vanifichi il lavoro svolto e si garantisca l’attuazione di misure fondamentali per il rispetto dei diritti umani e ambientali lungo le catene del valore».

La falsa obiezione dell’assenza di risorse

Secondo i dati diffusi da Somo, le imprese sedute al tavolo di consultazione sul pacchetto Omnibus nel 2023 hanno realizzato 5,6 miliardi di euro di profitti in media. Almeno 75 milioni sono stati distribuiti agli azionisti. Cifre esorbitanti, soprattutto se rapportate al fatto che la principale obiezione a ogni legge che regoli le attività delle imprese è che applicarla sarebbe troppo costoso. Qualsiasi intervento percepito come restrittivo delle libertà aziendali, infatti, viene contestato come antieconomico: potrebbe mettere in crisi le aziende e, con esse, le economie degli Stati e del mondo intero.

Succede la stessa cosa quando si parla di clima, come hanno mostrato gli esiti disastrosi della Cop29 in Azerbaigian. I Paesi più ricchi hanno offerto 300 miliardi di dollari l’anno in finanziamenti per la mitigazione e l’adattamento, a fronte della richiesta di almeno 1.000 miliardi da parte dei Paesi più colpiti dalla crisi climatica. I governi del Nord globale raccontano di non poter individuare risorse ulteriori senza mettere in crisi le economie, già piegati da una crisi generalizzata dei servizi pubblici (scuole, sanità, welfare). Il costo della vita aumenta, e le popolazioni si convincono di essere sull’orlo di una crisi economica che demolirà il già traballante stile di vita occidentale.

Davvero le multinazionali non hanno le risorse necessarie?

Insomma, è vero che le grandi imprese non potrebbero “reggere” il peso finanziario del rispetto di ambiente, clima e diritti umani? Il quadro generale sembra suggerire una sostanziale scarsità di risorse, ma la verità è che ci sono profonde diseguaglianze nella loro distribuzione.  Nel 2023, l’1% delle società quotate in Borsa ha versato ai propri azionisti 1.559 miliardi di dollari. Inoltre, l’1% della popolazione mondiale detiene il 95% della ricchezza totale. Tre uomini soltanto – Elon Musk, Jeff Bezos e Mark Zuckerberg – posseggono 900 miliardi di dollari. Mentre le economie dei cinque Paesi più poveri arrivano appena a 109 miliardi.

Come se non bastasse, nei prossimi dieci anni quasi 5mila miliardi di dollari che potrebbero arginare la crisi climatica, permettere di implementare strumenti di vigilanza sui diritti umani o introdurre sistemi in grado di tutelare l’ambiente nei cicli produttivi, finiranno in paradisi fiscali.

Davvero difficile, insomma, affermare che le risorse non ci siano. Regolare le attività delle grandi imprese significa semplicemente garantire processi di crescita giusti ai Paesi in via di sviluppo. Significa anche rendere più sano il nostro modello di sviluppo e aiutare le imprese a superare il principio della massimizzazione del profitto ad ogni costo. Le due direttive che in molti sperano di smentellare rappresentano dei passi avanti, benché insufficienti e manchevoli. Fare retromarcia significherebbe sconfessare non solo anni di lavoro ma gli stessi principi su cui dovrebbe fondarsi un’Unione europea costituita da governi democratici.