La Cop30 non è più l’ultima spiaggia
A Belém, la Cop30 non sarà l’ultima spiaggia: tra crisi geopolitiche, finanza fossile e greenwashing, il mondo resta lontano dagli obiettivi climatici
Non chiamatela ultima spiaggia. La trentesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite – la Cop30 prevista a Belém, in Brasile, dal 10 al 21 novembre – rappresenta certamente l’ennesima opportunità concessa ai governi di tutto il mondo di aggredire la crisi climatica con misure e decisioni drastiche e immediate. Come chiede la scienza da decenni. Ma non può essere l’ultima spiaggia, perché quella ce la siamo lasciata alle spalle ormai da tempo.
Dalla Cop23 a oggi: quante “ultime chiamate” abbiamo perso
È almeno dalla Cop23 di Bonn, nel 2017, che si parla di ultimo treno, ultima chiamata, ultima speranza. All’epoca, erano passati due anni dall’approvazione dell’Accordo di Parigi, raggiunto al termine della Cop21. E se la conferenza precedente, la ventiduesima che si era svolta a Marrakech, era stata in qualche modo accettata come “interlocutoria”, dopo il successo in Francia, a Bonn si era cominciato a parlare di attuazione concreta di quanto stabilito dalla comunità internazionale.
L’Accordo di Parigi, infatti, è come una Costituzione. Indica un principio fondamentale, ovvero il fatto che occorre limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 2 gradi centigradi, rispetto ai livelli pre-industriali, rimanendo il più possibile vicini agli 1,5 gradi. Sta poi ai governi di tutto il mondo rendere tale obiettivo concreto, fondamentalmente attraverso il superamento delle fonti fossili e la conseguente transizione ecologica ed energetica.
Road to Belém: aiutaci a raccontare la Cop30
Nel 2025 la conferenza sul clima si terrà alle porte dell'Amazzonia. Vogliamo esserci per raccontarla con uno sguardo critico e indipendente. Ma abbiamo bisogno del tuo aiuto.
Verso Belém: geopolitica, crisi e speranze
Il mondo arriva però all’appuntamento in Brasile in un contesto geopolitico per nulla positivo dal punto di vista climatico. Gli Stati Uniti di Donald Trump hanno avviato l’uscita (la seconda) dall’Accordo di Parigi già al momento dell’insediamento del miliardario americano alla Casa Bianca. In Europa, la seconda Commissione guidata dalla tedesca Ursula von der Leyen, il cui asse politico è sempre più spostato a destra, sta smantellando e annacquando le decisioni assunte negli scorsi anni in materia di sostenibilità. La Cina, ormai da anni forza trainante nello sviluppo delle rinnovabili, è ancora fortemente dipendente dalle fonti fossili, e deve ora fare i conti con la guerra commerciale voluta da Washington. E dal resto del mondo – a partire dai Paesi del Golfo, dall’India e dalla Russia – non arrivano di certo i segnali incoraggianti.
Così, la Cop30, da molti attesa come una possibile svolta – poiché ospitata da una nazione governata da un presidente progressista, Lula, dopo almeno due conferenze in “trasferta” a Dubai e Baku, in Paesi che basano la propria economia sulle fonti fossili – rischia di rivelarsi l’ennesima delusione. Al di là degli oggettivi problemi logistici legati alla scelta della città di Belém, la volontà di organizzare la Cop alle porte della foresta amazzonica lascia intendere i buoni propositi del governo del Brasile. Per questo, è lecito mantenere viva una speranza. Ma, oggettivamente, la strada appare decisamente in salita.
Dalle bombe climatiche alla finanza fossile: il ritorno al business as usual e il trionfo del postwashing
A ciò si aggiunge l’attitudine di numerosissime grandi multinazionali, che sembrano aver colto al balzo l’opportunità di tornare al business as usual, con la scusa delle crisi, dei dazi di Trump, di un contesto geopolitico conflittuale. Da un certo punto di vista, si tratta perlomeno di una chiarificazione: le sverniciate di verde che si erano date alcune aziende erano effettivamente greenwashing, come ampiamente denunciato da numerose organizzazioni della società civile. Altrimenti, quelle stesse aziende avrebbero mantenuto la barra dritta.
Invece, l’epoca del postwashing è palesemente cominciata. E in prima linea, in questo senso, ci sono proprio loro: le aziende del settore fossile. Di recente è stata aggiornata la mappa delle cosiddette “bombe climatiche” (carbon bombs), ovvero i progetti che si prevede e metteranno più di 1 miliardo di tonnellate di CO2 lungo l’intero ciclo della loro vita. Ebbene, nonostante l’Accordo di Parigi, nonostante gli annunci, i proclami e le promesse, i calcoli indicano che nel mondo tali bombe sono 601. Ben 176 in più rispetto all’ultimo monitoraggio effettuato nel 2023 da un gruppo di associazioni, tra le quali Data for Good e Reclaim Finance.
Il progetto Carbon bombs non si limita a elencare le “bombe climatiche”, ma mette in evidenza il ruolo che le più grandi banche al mondo hanno nel finanziare quei nuovi progetti: 1.600 miliardi di dollari da soli 65 istituti di credito. Gli stessi che, come indica il rapporto Banking on Climate Chaos, tra il 2016 e il 2024 hanno concesso 7.900 miliardi di dollari al settore delle fonti fossili.
Un’economia che continua a ignorare la scienza del clima
È il segno di un mondo che, semplicemente, si rifiuta di ascoltare e pensa solo al proprio tornaconto. In perfetta coerenza con un modello di sviluppo che punta alla massimizzazione dei profitti ad ogni costo, centinaia e centinaia di aziende in tutto il Pianeta preferiscono garantirsi ricavi nel breve termine, accontentare gli azionisti, distribuire dividendi, rispetto a garantire un futuro sereno alle prossime generazioni. E attenzione: non si tratta di ignoranza.
Sanno perfettamente quello che fanno. Ed è esattamente questa la ragione per la quale occorre impegnarsi per uno sviluppo diverso, alternativo, che ponga al centro il benessere delle persone e il rispetto dell’ambiente e della natura. Che accetti il profitto, ma non sempre. Non in qualunque situazione. Non costi quel che costi. Non depredando gli ecosistemi, distruggendo la biodiversità, stravolgendo il clima della Terra e imponendo nuovi furti neo-colonialisti. Finché l’economia e la finanza non ritorneranno ad essere strumenti al servizio dell’umanità, faticheremo ad uscirne.




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