Coronavirus: i contagi facili lungo la filiera della carne
Dagli Usa all'Italia: lungo la filiera della carne sono migliaia i casi positivi al covid19. E il virus rischia di passare da animale a uomo
Sul coronavirus, dal ricovero del “paziente 1” di Codogno otto mesi fa, si è imparato molto. Si è anche constatato che, tra i settori industriali più colpiti dal covid19, c’è quello zootecnico. La filiera della carne – con gli allevamenti intensivi e i grandi impianti di macellazione e di confezionamento – si è dimostrata un luogo dove il virus si diffonde con particolare facilità.
È un modello produttivo che si espande a scapito di habitat naturali un tempo irraggiungibili dove vivono specie selvatiche come, ad esempio, i pipistrelli e che favorisce il cosiddetto spillover, cioè il passaggio dei virus da una specie a un’altra. Può avvenire con il contatto inatteso tra esemplari selvatici e domestici da allevamento o direttamente nei famigerati Wet Market. Così può accadere che i virus si trasferiscano ed eventualmente mutino, diventando pericolosi per l’uomo. Si pensi alle crisi epidemiche recenti dovute a influenza aviaria e suina. Ma la letteratura sulle cosiddette zoonosi è amplissima.
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Da animali all’uomo e viceversa
La questione è più che mai seria e sempre più considerata dagli scienziati di tutto il mondo. E allora, mentre l’Italia, l’Europa e il mondo intero sono messi alle corde dal covid19, c’è chi guarda avanti e pone l’attenzione su un altro virus, il SADS-CoV. Un “betacoronavirus” con il potenziale di trasferirsi all’uomo, ritrovato negli allevamenti di maiali cinesi (e non solo) già dal 2016. Un virus probabilmente passato ai suini dai pipistrelli, che nei maiali provoca vomito e diarrea.
Ma non è tutto. Perché, secondo uno studio dell’University college of London e un altro lavoro di una ricercatrice dell’università di Anversa, va considerata anche la possibilità che varie specie di animali potrebbero essere infettati dal SARS-CoV-2. Ben 28 specie di mammiferi che entrano in contatto regolare con l’uomo sarebbero “suscettibili di contrarre il virus”. Se così accadesse tali esemplari potrebbero fungere “da serbatoi per la malattia, portando a future reinfezioni e ripetuti focolai”.
Certo tra il “suscettibile” e la realtà, fortunatamente, c’è una distanza da colmare. Anche se la recente notizia che la Danimarca ha ordinato l’abbattimento di milioni di visoni (secondo l’agenzia Xinhua 2,5) per la diffusione del contagio di coronavirus, deve far riflettere. E sono centinaia gli allevamenti di preziosi roditori colpiti dal covid19: oltre a quelli danesi, si sono verificati episodi in Usa, Olanda e Spagna.
Perché nei mattatoi si sviluppano i focolai di coronavirus?
Tuttavia, al di là delle dinamiche scientificamente studiate, va constatato quanto la pandemia abbia concretamente colpito persone e attività economiche nel settore zootecnico, in tutto il mondo, Italia compresa.
Fermo restando che la carne che arriva in tavola non è fonte di trasmissione dei contagi di Covid19.
Nell’occhio del ciclone sono finiti innanzitutto i mattatoi e, in misura minore, gli impianti di confezionamento. Ma perché? Innanzitutto si tratta di siti dove i lavoratori stanno a stretto contatto e compiono sforzi fisici. Una situazione che induce al respiro affannoso, ma l’impiego di mascherine e dpi risulta complicato. Spesso i lavoratori operano in condizioni estreme e persino di sfruttamento, alloggiate in strutture connesse agli impianti, dove è difficile garantire il distanziamento sociale.
Inoltre si tratta di luoghi dove la bassa temperatura richiesta dalla conservazione della carne favorisce la sopravvivenza del virus e le patologie da raffreddamento. Talvolta gli impianti di aerazione e ricambio dell’aria non sono adeguati. E, infine, dal momento che la carne è considerata un bene di consumo essenziale, le varie componenti della filiera non hanno mai chiuso, anche nei periodi più critici della pandemia.
Focolai e chiusure: il coronavirus ha piegato la zootecnia
Non deve stupire, quindi, che ad agosto scorso facesse rumore un’altissima incidenza di contagi nel grande impianto Aia di Vazzola, nel trevigiano. Mentre gravissimi problemi si sono verificati negli stabilimenti tedeschi del Nordreno-Westfalia. Per non parlare di quanto ciò abbia colpito l’industria alimentare e della carne in particolare negli Stati Uniti. A cominciare dall’eclatante caso del colosso della trasformazione della carne Tyson Foods, con oltre 10mila casi di positività accertata al Covid19.
Le rilevazioni dell’aprile 2020 pubblicate dal FERN (Food and environment reporting network) dicono che, “a partire dal 16 ottobre 2019 almeno 914 impianti di confezionamento della carne e di trasformazione alimentare (508 imballaggi di carne e 406 di trasformazione alimentare) e 143 fattorie e impianti di produzione hanno avuto casi confermati di Covid19. Almeno 65.407 lavoratori ( 45.588 addetti al confezionamento della carne, 11.348 addetti alla lavorazione degli alimenti e 8.471 lavoratori agricoli) sono risultati positivi al covid19 e almeno 269 lavoratori (215 addetti al confezionamento della carne, 37 lavoratori della trasformazione alimentare e 17 lavoratori agricoli) sono morti“.
Il problema è innanzitutto di salute e sicurezza delle persone, quindi, ma anche di inefficienza del modello produttivo.
La filiera della carne negli Usa, infatti, tende ad avere nei macelli proprio una sorta di collo di bottiglia. Secondo quanto ricorda Cassandra Fish, analista del comparto della carne bovina, al New York Times: «Nell’industria del bestiame, poco più di 50 stabilimenti sono responsabili di una percentuale che tocca il 98% della macellazione e della lavorazione negli Stati Uniti». Questo comporta che, se i mattatoi chiudono, a cascata tutta la filiera a monte soffra di costi vivi e gestionali enormi. Tanto più se parliamo di allevamenti intensivi da milioni di capi che non hanno più sbocco.