Quel cortocircuito pericoloso tra money market e banche centrali

Le terapie post crisi hanno creato un mercato squilibrato e le banche centrali stanno perdendo il polso della situazione. Dai pronti-contro-termine USA un'amara lezione

Matteo Cavallito
Il presidente della Federal Reserve americana, Jerome Powell © Sharon Farmer - Brooking Institute/Flickr
Matteo Cavallito
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Da che mercato è mercato, per così dire, le banche – ma anche i fondi e gli operatori finanziari in genere – hanno costante bisogno di una risorsa irrinunciabile: denaro da investire, prestare e garantire. Di norma, per fortuna, la benzina del business non manca, visto che il money market ne è quasi sempre ben fornito. Alle volte, tuttavia, possono sorgere squilibri sorprendenti che costringono i regolatori a intervenire in fretta e furia per scongiurare il panico. Ecco, negli Stati Uniti, a settembre, è accaduto esattamente questo. E oggi, dopo mesi di ipotesi non del tutto convincenti, una spiegazione puntuale inizia ad emergere. Solo che con essa sorge anche l’inevitabile domanda: cosa sta accadendo realmente sui mercati? Abbiamo, detto in altri termini, un problema di quelli seri? Forse sì. Ma andiamo con ordine.

Un mini-terremoto sull’interbancario USA

I protagonisti di questa storia si chiamano repo, cioè repurchase agreement o ‘pronti contro termine’ che dir si voglia, vale a dire gli strumenti privilegiati del mercato interbancario.

Il sistema, si sa, è percorso da flussi e transazioni continue e chi ha liquidità in eccesso tende a prestarla a chi ne è carente. I repo servono proprio a questo scopo, funzionando come contratti che regolamentano un prestito garantito. In sintesi: il venditore cede all’acquirente un pacchetto di titoli (generalmente bond governativi) impegnandosi a riacquistarli a prezzo maggiorato in una data successiva. Le operazioni, di norma, funzionano overnight, aprendosi e chiudendosi nello spazio di un giorno. I tassi, nei vari Paesi, sono in linea con quelli fissati dalle rispettive banche centrali. Il che, di questi tempi, significa per il mercato USA qualcosa di simile al 2%. Solo che a settembre, apparentemente senza motivo, gli interessi caricati sui repo sono quintuplicati fino a raggiungere il 10%. Perché?

La Fed in soccorso delle banche

La spiegazione più convincente l’ha offerta in questi giorni la BIS, la Banca dei regolamenti Internazionali (Bank of International Settlements). Le principali banche sistemiche, nota l’analisi, si sono ritrovate improvvisamente carenti sul fronte della liquidità, ovvero meno inclini a prestare denaro. Un vero e proprio shock sistemico per un mercato abituato fino a quel momento a un prolungato periodo di abbondanza.  A placare la tempesta ci ha pensato la Fed, intervenuta con una massiccia iniezione di liquidità nel comparto. I tassi sui repo, a quel punto, sono scesi rapidamente ai livelli precedenti.

Un mercato problematico

In apparenza tutto normale. Le crisi di liquidità di per sé non sono nemmeno troppo anomale, e finché le banche centrali intervengono i maggiori pericoli possono essere scongiurati. Ma il problema, nota la BIS, è che il mercato americano ha assunto caratteristiche preoccupanti. In primo luogo per via della concentrazione: ad oggi quattro banche – che la BIS non nomina – gestiscono in pratica il 25% delle riserve del sistema e circa la metà dei titoli di Stato del Tesoro USA.

Inoltre «l’aumento della domanda di finanziamenti da parte di istituzioni finanziarie che operano a leva, ad esempio i fondi speculativi (hedge funds), attraverso operazioni repo del Tesoro – scrive la BIS – sembra aver aggravato le tensioni dei fattori temporanei. Infine, lo stress potrebbe essere stato in parte amplificato dagli effetti di isteresi causati da un lungo periodo di abbondanti riserve, a causa dei grandi acquisti di assets da parte della Federal Reserve». Chiaro?

Le banche e il cortocircuito post crisi

Ok, semplifichiamo o, almeno, proviamoci. Dopo la crisi, questo lo sanno anche i muri, la Federal Reserve (al pari delle illustri colleghe di UE, Cina e Giappone) ha inondato il mercato di liquidità. Gli asset a bilancio della banca centrale USA – il cui acquisto equivale all’immissione della liquidità stessa – sono quintuplicati in meno di un decennio fino a raggiungere i 4,5 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari. A partire dal 2017 la Fed ha iniziato a rivendere parte degli asset e le riserve delle banche tenute a deposito presso lo stesso istituti centrale si sono contratte. Gli istituti si sono così ritrovati con più titoli e meno liquidità.

Contemporaneamente, ha ricordato lo scorso 10 dicembre Il Sole 24 Ore, regole più stringenti sulle riserve stesse hanno aperto la strada a nuovi operatori del mercato del credito che, a differenza delle banche, non sono soggetti a norme particolarmente restrittive. Il sistema bancario ombra, insomma, che si muove in un contesto sempre più imprevedibile e di cui la stessa banca centrale deve farsi comunque carico per proteggere la stabilità generale anche – scrive il quotidiano – «senza una cognizione precisa della crisi temporanea».

(Tossico)dipendenza da banche centrali

La questione principale è essenzialmente questa. «Le banche centrali hanno perso il polso del funzionamento del sistema, che è sempre più una scatola nera in cui il sistema bancario ombra, che comprende anche i fondi hedge, resta una variabile non controllabile se non ex post» spiega a Valori Mario Seminerio, analista, portfolio advisor e commentatore radiofonico. Sullo sfondo resta poi il noto tema macro: quello di un mercato finanziario USA fortemente dipendente dalla Fed. E, più in generale, di un sistema economico globale che pretende sempre di più dalle banche centrali, nonostante gli evidenti rischi distorsivi per i prezzi e la crescita.

Non è un caso che il salvataggio del mercato dei repo e la contemporanea promessa di nuovi acquisti obbligazionari da parte della Fed stessa abbia immediatamente spinto la borsa americana in prossimità di nuovi record. Ma questa, lo sappiamo bene, non è nemmeno una vera notizia.