Facebook, Instagram, X e YouTube: i social della disinformazione climatica
Le piattaforme spingono consapevolmente i post cospirazionisti sulla disinformazione climatica per i loro interessi economici e politici
Quando a inizio di luglio le inondazioni in Texas hanno ucciso centotrenta persone, tra cui oltre venti ragazze in un campo estivo, i social network hanno dimostrato il loro immenso e nefasto potere nel campo della disinformazione climatica. Non solo hanno diffuso false informazioni, mettendo a rischio diverse vite umane e ostacolando il lavoro dei soccorritori. Ma tra fake news, assurde cospirazioni e improbabili teorie del complotto, le grandi piattaforme come Meta (Facebook e Instagram), X e YouTube si sono rivelate ancora una volta il peggior megafono del negazionismo climatico.
Il tutto per qualche milione di click. Ovvero, per un pugno di dollari da guadagnare attraverso pubblicità e raccolta di dati. Per evidenti ragioni politiche, visto che i loro Ceo si sono tutti affrettati a celebrare l’elezione presidenziale di Donald Trump e a sostenerlo economicamente con donazioni spaventose. E per qualche buon affare con le multinazionali del fossile che da sempre le sostengono. E con le quali condividono diversi fondi d’investimento nelle loro ragioni sociali.

Disinformazione climatica: le piattaforme ci guadagnano
A raccontarlo è una nuova ricerca del Center for Countering Digital Hate (Ccdh). Il rapporto, oltre alle alluvioni in Texas del 2025, ha analizzato anche la risposta dei principali social network nel caso di altri tre eventi climatici estremi avvenuti negli ultimi due anni negli Stati Uniti. Gli incendi di Los Angeles del 2024 e 2025. E gli uragani Helene e Milton in Florida nel 2024. Tragedie che hanno causato centinaia di vittime e milioni di sfollati. E, se raccontate nel modo giusto, avrebbero potuto servire da ennesimo campanello d’allarme sulle crisi climatiche.
Invece, la ricerca ha dimostrato senza ombra di dubbio la responsabilità delle piattaforme nel proporsi come i peggiori alfieri della disinformazione climatica. Quello che è emerso infatti è che i post più virali su questi eventi climatici estremi, per la gioia delle piattaforme che li indicizzano attraverso l’algoritmo, propugnavano deliranti teorie del complotto. Affermazioni assurde e infondate, secondo cui gli uragani sarebbero stati “armi geo ingegnerizzate”. O gli incendi boschivi sarebbero stati appiccati da “laser governativi”. Per non parlare delle fake news sul fatto che “i migranti fossero la priorità per gli aiuti”.
«Le quattro principali piattaforme di social media favoriscono e traggono profitto da false informazioni sugli eventi meteorologici estremi», hanno scritto i ricercatori. «Con un conseguente aumento dei rischi per la sicurezza pubblica. Un ostacolo alla risposta alle emergenze e un’erosione della fiducia del pubblico negli sforzi di soccorso in caso di calamità». Perché questi vaneggiamenti hanno fomentato l’opinione pubblica. Tanto che in un caso un uomo influenzato dalle fake news delle piattaforme è stato arrestato per aver minacciato in un sito di soccorso il personale del Fema, l’ente federale per la gestione delle emergenze degli Stati Uniti.
Account verificati, i peggiori diffusori di fake news sul clima
I ricercatori del Ccdh hanno analizzato oltre cento post virali su ciascuna delle tre principali piattaforme durante i recenti eventi meteorologici estremi. E in buona sostanza hanno osservato come Meta (Facebook e Instagram) non presentava verifiche dei fatti o Note della community nel 98% dei post analizzati. X non presentava verifiche dei fatti o Note della community nel 99% dei post analizzati. Mentre YouTube ha fatto ancora peggio con zero verifiche dei fatti o Note della community nel 100% dei post analizzati.
Lo studio inoltre ha rivelato come gli utenti verificati che ricevono maggiore visibilità e privilegi di monetizzazione sono tra i peggiori trasgressori. L’88% dei post fuorvianti sul clima estremo su X proveniva da account verificati. Il 73% di tali post su YouTube proveniva da account verificati. E il 64% su Meta proveniva da account verificati. A dimostrazione che la disinformazione climatica non fa guadagnare solo le piattaforme, ma anche gli utenti più noti – i verificati – che su queste piattaforme lucrano in termini economici e di prestigio.
Il caso Alex Jones: apoteosi della disinformazione climatica

Una parte della ricerca è dedicata all’analisi dei post di Alex Jones. Conduttore radiofonico, gestore del sito InfoWars, il pluricondannato Alex Jones è esponente dell’alt-right neonazista americana. E un noto sostenitore di varie teorie del complotto: dall’11 settembre alle sparatorie nelle scuole, da Waco al Pizzagate. Fino ovviamente alla disinformazione climatica. Come possiamo vedere dal grafico, le false e deliranti affermazioni di Jones dal 7 al 31 gennaio 2025 durante gli incendi di Los Angeles, tra cui cospirazioni sulla confisca di cibo e vari complotti globalisti, hanno raccolto oltre 400 milioni di visualizzazioni su X. Più di tutte le visualizzazioni messe insieme dai dieci più importanti organi di informazione (Los Angeles Times, New York Times, Associated Press, Bbc e così via). E dalle dieci agenzie statali o federali che si occupano delle emergenze, come la Fema o il Comune di Los Angeles.
Un intero ecosistema che alimenta la disinformazione climatica
Il problema quindi è economico e politico, come abbiamo visto. Ma è anche sociale e culturale. La disinformazione alimentata dalle piattaforme ha un impatto profondo su come le persone percepiscono la crisi climatica e i fenomeni climatici estremi. Ogni post negazionista e cospirazionista sugli incendi di Los Angeles, gli uragani della Florida o le alluvioni del Texas, infatti, rimanda a teorie più generali e sempre più diffuse che hanno lo scopo di aggredire il pensiero dell’opinione pubblica. Una vera e propria strategia messa in atto dalle stesse piattaforme che sono, come raccontato più volte su Valori, tra le aziende che emettono più gas serra.
E così, una semplice fake news sugli uragani in Florida rimanda a un ecosistema informativo dove si diffondono interpretazioni fuorvianti dei dati che suggeriscono una diminuzione dell’intensità e del numero degli uragani. Oppure a siti che danno false caratterizzazioni della climatologia, dipingendola come un’inutile scienza dell’allarmismo. Le false affermazioni secondo cui Biden avrebbe interrotto gli aiuti alle vittime degli uragani servono a contestare in toto le (poche) iniziative per il clima messe in atto dall’ex presidente. E così via, precipitando sempre più nel cuore della disinformazione climatica.
«È sconcertante vedere come i negazionisti della scienza del clima e i teorici della cospirazione catalogati nel database di DeSmog stiano manipolando gli eventi meteorologici estremi per diffondere le loro fallacie prive di fondamento. Tuttavia, forse ancora più scioccante, è che le aziende di social media stiano attivamente traendo profitto dalla disinformazione che si diffonde a macchia d’olio sulle loro piattaforme», ha affermato Sam Bright, vicedirettore di DeSmog per il Regno Unito. «Questo rapporto dimostra inequivocabilmente che la disinformazione climatica costa vite umane. Con l’aumento della frequenza degli eventi meteorologici estremi, queste falsità diventeranno sempre più pericolose».
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