Dittatori, riciclaggio, trafficanti. Credit Suisse nel mirino di un’inchiesta internazionale
Condotta da un consorzio di 48 media internazionali, un'inchiesta ha analizzato oltre 18mila conti bancari aperti presso Credit Suisse
Per decenni Credit Suisse ha aperto le proprie casseforti a decine di miliardi di euro provenienti da traffici e business illegali o per lo meno sospetti. Ad affermarlo è un’inchiesta internazionale condotta dall’Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occpr), consorzio che raggruppa 47 testate, tra le quali The Guardian, Le Monde, La Nacion, Irpi Media e il Miami Herald. Decine di giornalisti hanno analizzato i dati riguardanti più di 18mila conti bancari aperti presso l’istituito di credito elvetico tra l’inizio degli anni Quaranta del ‘900 e la fine degli anni Dieci del secolo in corso. Si tratta di informazioni ricevute dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung e appartenenti a circa 37mila tra persone fisiche e giuridiche.
Quei 95 miliardi di euro nelle casse di Credit Suisse
Secondo quanto riportato dai media dell’Occpr, Credit Suisse avrebbe accettato fondi provenienti da attività illecite e da soggetti coinvolti in casi di corruzione. Violando le regole di vigilanza imposte ai grandi gruppi bancari internazionali. Complessivamente, i depositi ammontano a più di 100 miliardi di franchi svizzeri (95 miliardi di euro).
Si tratta di un duro colpo per l’immagine della seconda banca della Svizzera, che già fronteggia pesanti accuse. In particolare quella di aver consentito il riciclaggio di denaro da parte di una rete bulgara di trafficanti di droga. A questi ultimi, l’istituto finanziario avrebbe concesso l’apertura di decine di conti tra il 2004 e il 2007 e l’utilizzo di otto cassaforti. Un’accusa che il colosso di Zurigo respinge al mittente, dichiarandosi innocente. Ma che, alla luce della nuova inchiesta internazionale, battezzata “Suisse Secrets”, sembra rappresentare solo una di tante scelte “azzardate” della banca.
Dal re di Giordania ai funzionari dei servizi segreti, passando per il presidente del Kazakistan
Tra i nomi citati dal consorzio che ha condotto l’analisi figura quello del re di Giordania Abdallah II. Sono poi alti funzionari tunisini, egiziani, libici, siriani e yemeniti che avrebbero intascato grosse somme di denaro nei loro Paesi durante il periodo delle “primavere arabe“, mettendole al sicuro nella nazione alpina. Ma anche venezuelani sospettati di avere sottratto fondi alle casse pubbliche, il plenipotenziaro dell’ex dittatore dello Zimbabwe Robert Mugabe, Billy Rautenbach, e numerosi funzionari di servizi segreti che avrebbero praticato torture per conto della Cia.
La lista è particolarmente nutrita e eterogenea. È presente, ad esempio, anche un dirigente del gruppo Siemens che avrebbe corrotto alcuni funzionari nigeriani. È citato poi un uomo presunto punto di riferimento dell’Ira irlandese e della ‘ndrangheta calabrese per i propri servizi di riciclaggio. Si fa poi il nome di Kaled Nezzar, ex capo dell’esercito algerino durante la guerra civile degli anni Novanta, cliente della banca tra il 2004 e il 2013, sospettato di crimini contro l’umanità.
Credit Suisse: «Informazioni parziali, inesatte, fuori contesto e datate»
Credit Suisse avrebbe offerto i propri servizi anche a Qasym-Jomart Toqaev, presidente del Kazakistan. Ad Armen Sarkissian, fino a gennaio presidente dell’Armenia. A Bidzina Ivanichvili, oligarca multimiliardario georgiano, nota eminenza grigia del proprio Paese. E perfino al figlio del capo dell’intelligence pakistana, che facilitò un flusso di denaro di miliardi di dollari dagli Stati Uniti ai mujaheddin dell’Afghanistan negli anni Ottanta.
Da parte sua, Credit Suisse ha replicato bollando le informazioni come «parziali, inesatte o prese al di fuori di ogni contesto. Comportando una presentazione tendenziosa della condotta dei nostri affari. Il 90% dei conti in questione è oggi chiuso. Più del 60% lo è stato prima del 2015».
Il wistleblower: «Il segreto bancario un pretesto per nascondere un ruolo vergognoso»
Il whistleblower che ha consegnato i dati alla Süddeutsche Zeitung coperto da anonimato ha accettato di spiegare i motivi che lo hanno spinto a compiere tale gesto. La volontà è stata quella di denunciare gli effetti nefasti del segreto bancario svizzero: «Il pretesto della protezione dell’identità della clientela non è altro che una foglia di fico con la quale è stato coperto il vergognoso ruolo degli istituti di credito svizzeri».
L’autenticità delle informazioni rivelate è stata confermata da molteplici controlli incrociati. Basati su atti processuali, testimonianze e analisi giornalistiche. In alcuni casi, l’esistenza di tali conti bancari è stata confermata dagli stessi titolari.