Cosa non torna nella narrazione sulla forza dell’economia statunitense
Nonostante l'indebolimento del dollaro e l'enorme debito pubblico, i mass media celebrano la presunta ottima salute dell'economia statunitense
È sempre più evidente che esiste una vera e propria costruzione narrativa finalizzata ad alimentare la sudditanza europea nei confronti degli Stati Uniti. Alcuni dei principali giornali italiani stanno celebrando la forza dell’economia statunitense, che prescinderebbe persino dalla politica. E si stanno affannando a ribadire la ripresa dell’occupazione e i “record” di Borsa interpretati come i segni inequivocabili della buona salute dell’impero americano. Il messaggio è chiaro: cari italiani e care italiane, non potete fare a meno degli Stati Uniti perché mantengono il primato nonostante Donald Trump.
Cosa non torna nei parametri che dovrebbero indicare la salute dell’economia statunitense
Ora, in questa narrazione ci sono molte cose che non tornano. A parte il fatto di trascurare l’elefante nella stanza costituito da un debito federale che lo stesso presidente della Federal Reserve ha dichiarato insostenibile e che costa 1.200 miliardi di dollari di interessi, faticando a trovare compratori, e senza considerare l’indebolimento strutturale del dollaro pur in presenza di tassi al 4,25-50, sono gli stessi dati citati dagli aedi nostrani a lasciare perplessi.
La tenuta dell’economia statunitense dipenderebbe dalla capacità di creare in un mese 147mila posti di lavoro in più! È facile capire che si tratta di un dato molto parziale. Tanto più perché la rilevazione avviene sulla base dei numeri forniti dalle imprese circa le buste paga di quel mese. Senza alcuna indicazione sulla natura dei contratti, sulla durata degli impieghi e su altre variabili considerate invece nelle rilevazioni fatte in Europa. In più, il dato dell’occupazione americana è una stima perché si basa, di fatto, su un campione scelto in maniera alquanto discutibile. Pensare che questo dato sia un indicatore della tenuta dell’economia statunitense è davvero poco credibile, a fronte di una stima del Pil negativa dello 0,5% nel primo trimestre 2025.
Dietro la crescita delle Borse c’è solo speculazione
Ma anche il tema delle Borse andrebbe chiarito meglio. I listini sono tornati a salire perché alcuni titoli hanno beneficiato delle iniezioni di liquidità dei grandi fondi. Soprattutto da parte delle Big Three, spaventate dal tracollo avviatosi da gennaio. In questo senso ha pesato anche il conflitto tra Trump e Jerome Powell, che ha convinto gli stessi grandi fondi a sostenere le Borse Usa per evitare il taglio degli interessi che certo non gioverebbe loro, visto che sono già in possesso della liquidità e quindi non hanno bisogno del credito animato dalla Federal Reserve.
In estrema sintesi, da questo punto di vista i grandi fondi, dopo aver stimolato e iniziato a cavalcare l’onda del riarmo europeo, hanno deciso di sostenere ancora le Big Tech americane per evitare che una caduta dei listini rendesse inevitabile la riduzione dei tassi da parte di Powell. Con l’evidente conseguenza di favorire la finanza altamente speculativa di Trump, competitiva con le Big Three e bisognosa di tassi bassi.
Questa tenuta dei listini, però, non può nascondere proprio il braccio di ferro fra il presidente Trump e una parte della finanza che rende le piazze finanziarie statunitensi del tutto inaffidabili per il resto del mondo. Che, infatti, ha smesso di trasferire Oltreoceano i propri capitali e i propri risparmi. Questo accade ovunque nel mondo al di fuori dell’Europa, dove la narrazione dominante sta facendo di tutto per mantenere in vita un’economia in profondo collasso, come quella statunitense, sostenendo che sta benissimo.
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